Dai porti gemelli di Los Angeles e Long Beach transitano oltre un terzo delle merci totali importate in America. Da più di due mesi i 12000 lavoratori che aderiscono al sindacato dei portuali nei due scali sono in agitazione contro l’adozione di camion automatici per trasportare i carichi in arrivo.

La Maersk, colosso danese titolare di uno dei maggiori terminal, ha annunciato l’intenzione di sostituire i mezzi pesanti guidati dai lavoratori con veicoli autonomi semoventi. Il progetto significherebbe la perdita di centinaia di posti di lavoro attualmente svolti dai portuali che sono scesi in lotta per evitarlo.

IL 21 MARZO scorso più di mille operai si sono presentati con slogan e striscioni («i robot non pagano tasse») ad una riunione della commissione che dovrà decidere sull’automazione dei sistemi. L’automazione nei porti è sempre stata materia di contenziosi da quando l’industria ha adottato i container negli anni 60. I portuali ottennero allora aumenti di stipendio per compensare la perdita di ore lavorative ma il sindacato sostiene che l’introduzione di veicoli robotici proposti dalla Maersk oltrepasserebbe il limite sostenibile.

LO SCONTRO è paradigmatico della fase di cambiamento che attraversa il mondo del lavoro e dei rapporti industriali alla luce di una nuova ondata di automazione che assieme all’introduzione sempre maggiore dell’intelligenza artificiale promette cambiamenti epocali. È emblematico dunque del capitalismo rapace di era post sub-prime in cui, come rileva tra gli altri Joseph Stiglitz nel suo nuovo libro, People, Power and Profits, «l’industria finanziaria ha potuto dettare le proprie stesse regulation, i giganti tecnologici accumulare montagne di dati fuori da ogni controllo e i governi hanno sottoscritto trattati di commercio che non tengono minimo conto degli interessi dei lavoratori».

Fra le mutazioni del lavoro che stanno producendo gli attuali vertiginosi livelli di diseguaglianza, quelle più fondamentali riguardano la diffusione della precarietà come condizione normale, specie nella gig economy, ma anche nel mondo del lavoro «saltuario» si registrano tensioni diffuse. Qualche settimana fa lo sciopero «mondiale» di conducenti Uber ha avuto adesione sporadica ma abbastanza risonanza per ricadere con notevole forza negativa sulle prospettive della società – nel momento peggiore per loro: in vista della IPO su Wall Street.

COME IL CONCORRENTE Lyft e la piattaforma di cibo a domicilio Postmates, il gigante di ride sharing quest’anno ha optato per rivolgersi ai mercati anche per anticipare possibili nuove norme che potrebbero obbligarli a classificare i propri lavoratori come dipendenti a tutti gli effetti. L’anno scorso la Corte suprema californiana ha ritenuto illecito da parte delle aziende classificare i guidatori come liberi imprenditori, un escamotage che permette loro di eludere minimi salariali, straordinari, contributi sanitari e pensionistici per decine di migliaia di conducenti. La scorsa settimana il parlamento della California inoltre ha approvato una legge che renderebbe obbligatoria l’assunzione di lavoratori “indipendenti” a meno di non dimostrare che questi a) esulino effettivamente dal controllo dell’azienda, b) svolgano attività non attinente a quella principale della società e c) abbiano altri «clienti» nel settore. Per evitare l’assunzione, tutti e tre criteri del test detto “abc” dovranno essere comprovati. Le normative californiane contraddicono direttamente le direttive del ministero del lavoro di Trump che sempre il mese scorso a Washington aveva indicato di voler invece favorire le aziende, e profilano solo l’ultimo diretto scontro politico fra lo stato più popoloso e governo federale.

SE LE PIATTAFORME fossero costrette ad assunzioni regolari dovrebbero sostenere un aumento dei costi operativi del 30% mentre conducenti (e molte altre tipologie di lavoratori che «offrono servizi» attraverso piattaforme ed app) ne trarrebbero un deciso vantaggio, dato anche che oggi, dopo le spese, i guidatori dei ride sharing finiscono di solito per portare a casa meno del minimo sindacale.
ANCHE ALLA LUCE di queste considerazioni, l’offerta pubblica di Uber, è risultata assai deludente rispetto alle aspettative, perdendo il 7% del valore e attestandosi ben al di sotto dei prezzi previsti per le azioni. Nella documentazione ai potenziali investitori la società ha dovuto ammettere che se dovesse cambiare il «panorama normativo» potrebbe venire fortemente ridimensionato il business model fondato sulla classificazione dei conducenti indipendenti (e sul loro sfruttamento).

La Left Coast si conferma insomma universo politico parallelo ed alternativo nell’America trumpista, in questo caso per quanto riguarda la regolamentazione dell’industria tech che qui è in gran parte basata.
Il governatore democratico Gavin Newsom ha ad esempio ripetutamente ventilato l’ipotesi di un “digital dividend”, un possibile sistema di royalties informatiche che le aziende sarebbero tenute a devolvere agli utenti dei social in cambio della commercializzazione dei dati personali.

PER QUANTO riguarda Uber – e per tornare anche alle lotte dei portuali di Los Angeles – la posizione degli «oltranzisiti» tecnologici – è che i fastidi arrecati dal malcontento dei driver siano una grana inevitabile ma transitoria, da gestire solo fino a quando la tecnologia non permetterà di sostituirli infine con veicoli auto guidanti.
Se non quelle di Uber (che potrà presumibilmente commercializzare comunque le montagne di dati sulla mobilità dei clienti raccolte in un decennio di attività) allora da quelle di Google o di Elon Musk. Un’altra transizione che prospetta nuovi scontri sul fronte dell’automazione – e della progressiva estinzione del lavoro.

Sulle dinamiche insomma che promettono di plasmare concretamente il mondo del lavoro nei prossimi decenni e su cui, seppure in ritardo, comincia forse ad intravedersi il tentativo di un azione politica.