Uomini grossi, ruvidi e romantici, donne dalla curve vertiginose e letali come serpenti, politici corrotti e sadici, gangster sadici e corrotti, auto smisurate che corrono sull’ asfalto bagnato, nuvole impenetrabili di sigaretta intorno ai tavoli da poker, trench stretti in vita e tacchi a spillo. Ma soprattuto nero, nero e ancora tantissimo nero. In 3D.

La serie di graphic novels Sin City è l’omaggio di Frank Miller all’hardboiled struggente degli anni quaranta e al cinema che ne è stato ispirato. Nel 2005, l’autore di 300, e del cupo restyling di Batman The Dark Knight, in un imprevedibile tandem con il colorito regista texano Robert Rodriguez, aveva portato sul grande schermo la serie neonoir, pubblicata, a partire da 1991, dalla Darkhorse.

Codiretto da Miller e Rodriguez e realizzato grazie una combinazione (allora abbastanza inedita) di live action e Cgi, in cui attori come Bruce Willis, Mickey Rourke (appena resuscitato da Darren Aronofski in The Wrestler), Jessica Alba e Clive Owen venivano digitalmente risucchiati nell’universo nichilista di Miller, nelle sue composizioni apocalittiche, nel suo tratto sicuro a cattivo – Sin City venne presentato a Cannes.

Più vicino alla darkness algida, occasionalmente pretenziosa, e statuaria di Miller che alle pirotecnie di confine, all’occhio dada e alla spensieratezza del regista di El Mariachi e degli Spy Kids, Sin City si rivelò il perfetto oggetto del desiderio del «critico intelligente» – un film fumetto «per adulti». Anche il pubblico si fece sedurre dalla dalla sua infinita coolness: uno degli ultimi film distribuito dalla Miramax prima che la casa dei fratelli Weinstein passasse sotto il controllo della Disney, questo noir ibridato con il cartoon, piccolo e cattivo, incassò centocinquantotto milioni di dollari.

Quasi dieci anni dopo, il suo sequel- sempre codiretto da Miller e Rodriguez – arriva in sala. In un contesto completamente diverso e dopo che la presenza di Miller al cinema si è fatta più ubiqua-la sua sensibilità ha infatti profondamente influenzato il reboot di Batman ideato da Christopher Nolan, 300 è diventato un film di Zack Snyder, e lo stesso Miller ha diretto un catastrofico adattamento dal fumetto di Wil Eisner The spirit. Intrecciando alcune storie uscite dalla graphic novel (come quella del titolo) a due trame scritte per l’occasione, Sin City: A Dame to Kill For, è di nuovo al settantacinquepercento Miller. Dietro alla cinepresa, Rodriguez (che firma anche il montaggio) porta vivacità e movimento, una la voglia di non prendersi troppo sul serio completamente assente nel primo film, ma l’impressione finale non si discosta dalla freddezza estetizzante del disegnatore.

Sin City 2 snocciola ingredienti, luoghi, personaggi, dialoghi e atmosfere del noir ma il suo è un fatalismo di prammatica, svuotato dell’angoscia esistenzial/sociale di quell’immaginario, emerso dalle macerie del dopoguerra made in Usa.

Occhi verdissimi e bocca scarlatta che si stagliano sul bianco e nero dell’immagine/fumetto, Eva Green ha i colori e i contorni di Ava Gardner, ed emula dark ladies alla Barbara Stanwick. Nuda in piscina ripresa dall’alto, come se fosse Esther Williams, o avvolta in un soprabito azzurro che la fa sembrare la regina cattiva di Biancaneve è dark che più dark di così non si può. Ma non c’è un solo momento in cui senti qualcosa per lei –ribbrezzo, empatia, curiosità per la sua animlesca disperazione, la sua avidità patologica.

Ereditando il ruolo che fu di Clive Owen, Josh Brolin è il poveretto che ne rimane ammalliato e continua a farsi fregare, anche quando giura che non le crederà mai più. Christopher Meloni è il poliziotto che si fa fregare anche lui, in modo più tragicomico. Powers Boothe è il senatore così cattivo che tortura suo figlio quando lo batte al gioco (Joseph Gordon-Levitt, che si diverte durante una bella scena iniziale di poker. Bruce Willis, torna ma solo in veste del fantasma di Joh Hartigan. Jessica Alba continua a spogliarsi per dei debosciati pensando a lui e sognando di vendicarsi.Enorme e disperato Mickey Rourke, nei panni de gigantesco Marv, sfoga il suo tormento a forza di pugni.

Tutto è abbastanza visto e quasi completamente privo d’anima, ma si fa guardare, e scorre piuttosto in fretta (un’ora e 42, contro le 2 del primo capitolo). La critica americana – che pure sta attraversando un momento buonista – lo ha stroncato forse un po’ troppo spietatamente. Più preoccupante la reazione del pubblico, che ha disertato il week end d’apertura. La coolness, evidentemente, non è piu quella di dieci anni fa.