È una fotografia desolante, quella di Kovankaya, villaggio mesopotamico a sei ore di fuoristrada dall’aeroporto turco di Sirnak. Un’immagine impietosa della precaria condizione a cui le popolazioni della regione montagnosa ai confini con la Siria sono da decenni sottoposte.

Quella di Kovankaya – Meer in aramaico, lingua degli assiri – è una storia che riflette la distruzione del mosaico etnico della Mesopotamia, come ci racconta la tragica e recente scomparsa di Simuni e Hurmuz Diril, ultimi – e unici – abitanti del villaggio.

L’ultima fase dello sfaldamento di questo mosaico inizia nel 1989, quando gli abitanti di Kovankaya sono cacciati dalle autorità per via delle operazioni militari contro la guerriglia curda.

Da allora, delle 80 famiglie in prevalenza assiro-caldee, pochissime hanno tentato un ritorno, stroncato drammaticamente dalla nuova espulsione del 1994 quando la larga maggioranza dei suoi abitanti ha già preso la via dell’esilio verso Istanbul, ultima tappa prima dell’espatrio. Oggi la diaspora conta, solo tra Francia e Belgio, diverse decina di migliaia di assiro-caldei.

Eppure c’è chi ha resistito. Tra questi la famiglia Diril che, malgrado minacce e ritorsioni, non ha mai perso la speranza di ricostruirsi una vita tra le montagne dell’Anatolia sud-orientale.

Nel 1999 Hurmuz Diril viene arrestato con l’accusa di collaborare con il Pkk, i suoi sei figli espulsi dal villaggio insieme alla moglie. Per loro – come per milioni tra curdi e cristiani della Mesopotamia – non resta che emigrare. Da sfollati, scelgono Istanbul.

Rilasciato dopo un anno di detenzione, Hurmuz raggiunge la famiglia, ma non smette di visitare Kovankaya. Vi trascorre molti mesi l’anno, fino al definitivo ritorno con la moglie Simuni, nella convinzione che nel 2010 una coppia di assiro-caldei possa finalmente risiedervi senza destare alcun sospetto.

Loro malgrado, l’inasprimento della repressione iniziato nel 2015 si traduce nel malessere delle autorità verso questa presenza. In un villaggio dichiarato off-limits, non c’è spazio per una vita scandita da pastorizia e agricoltura.

Così, nel 2018 si apre un secondo processo contro Hurmuz e uno dei figli per collaborazionismo con il Pkk. Se le accuse decadono prontamente, non si attenuano invece le insistenti intimidazioni di ignoti contro i Diril, seguite dalle ripetute richieste delle autorità di abbandonare l’area.

Il resto è attualità. Lo scorso 11 gennaio, secondo l’unico testimone oculare, uomini armati entrano a Kovankaya e prelevano Hurmuz e Simuni Diril. Il silenzio mediatico e l’alta neve non smuovono le ricerche fino all’arrivo in primavera di George, uno dei figli dei Diril, che trova il cadavere della madre ai margini di un torrente.

Parte allora una petizione su change.org (#DoveèHurmuzDiril #GiustiziaperSimuniDiril) per sollecitare una risposta delle autorità, della prefettura di Sirnak e della gendarmeria circa la scomparsa di Hurmuz e la morte di Simuni Diril.

La tragica cronaca raffigura tristemente le vicende che hanno segnato la Mesopotamia dal 1915 a oggi. Un secolo di massacri ed espulsioni che ha sconvolto quella Turchia in cui gli assiro-caldei rappresentano forse la componente demograficamente e politicamente più debole.

Minoranza tra le minoranze, la comunità ha seguito il destino degli altri gruppi assiri (siriaci ortodossi e cattolici e assiri ortodossi) annichiliti dall’olocausto vissuto tra il 1915 e la fondazione della Repubblica di Turchia nel 1923, un evento ricordato dalla comunità come Saypa, la «spada» che ha condotto alla morte oltre 300mila persone, secondo le stime dello storico siriano Joseph Yacoub, tra i più noti intellettuali assiro-caldei di Francia.

Un dramma che si rinnova con l’inasprirsi del conflitto curdo-turco che ancora oggi contribuisce alla dipartita degli ultimi assiro-caldei. Giacciono sul terreno anatolico oltre 200 villaggi abbandonati o distrutti dalle forze armate in 40 anni di guerra.

Oggi sono circa 800, a eccezione dei rifugiati iracheni e siriani, gli assiro-caldei ancora residenti in Turchia. Una comunità che vive ai margini della vita economica e culturale del Paese, senza rappresentanza politica, la cui vita sociale gravita attorno alla piccola chiesa assiro-caldea di Istanbul, già sede della “dipartita” comunità greco-cattolica.

È qui che Adday Remzi, altro figlio dei Diril, si fa portavoce dell’esile ed esposta società assiro-caldea, dalle mura di un centro comunitario che sorge su una via che porta allo storico piazzale Galatasaray dove per anni il grido di dolore delle «madri del sabato» ha reclamato giustizia per i propri desaparecidos, vittime del lungo conflitto curdo-turco.

Altra minoranza, altro dramma senza fine nella Turchia di Erdogan.