Il 23 marzo 1475, Giovedì Santo, a Trento scomparve il piccolo Simone, figlio del conciapelli Andrea Lomferdorm. Il 26 marzo, giorno di Pasqua, il corpo senza vita del bambino fu ritrovato nelle acque di una roggia che scorreva sotto l’abitazione dell’ebreo Samuele da Norimberga. La sinagoga, dove si era riunita la comunità ebraica per i riti pasquali, era nello stesso edificio; non erano distanti i laboratori dei conciapelli, dei calzolai, dei sellai e dei fabbri di origine tedesca con i quali gli ebrei di Trento condividevano la lingua, la condizione di immigrati e, in alcuni casi, la città di provenienza.

In un’atmosfera già inquinata dal pregiudizio, il podestà ordinò quindi l’arresto di Samuele e di tutti i maschi presenti in sinagoga. L’inchiesta che ne scaturì, su cui pesarono solamente le confessioni estorte con la tortura, portò alla loro incriminazione e quindi alla confisca dei beni e alla pena di morte. Secondo l’accusa, Simone fu ucciso dagli ebrei allo scopo di utilizzarne il sangue nei riti pasquali. Un’imputazione che aveva già colpito altre volte gli ebrei nell’Occidente medievale. Un’«accusa del sangue» che, condensando stereotipi diffusi, demonizzava le comunità ebraiche delimitandone così lo spazio sociale e quindi le attività e la rete dei rapporti, impedendone, di fatto, l’integrazione.

Il modello di questi omicidi rituali si era diffuso attraverso i canali della propaganda agiografica. Simonino – come Werner di Oberwesel, Giovannino Costa, Dominguito del Val, Andrea di Rinn, William di Norwich, eccetera – fu percepito immediatamente come un martire, ucciso a causa e al posto di Cristo. E sul culto di quel corpo e sull’identificazione degli ebrei come nemici della città il principe vescovo di Trento Johannes Hinderbach non mancò di investire immediatamente, con un’azione di propaganda che passò dalle richieste di testi sull’argomento rivolte agli amici umanisti – su tutti il proprio medico, Giovanni Mattia Tiberino –, alla registrazione dei miracoli compiuti dal piccolo martire – 129 in un solo anno –, alla commissione di immagini e alla loro diffusione attraverso un uso sistematico della stampa. L’enorme sforzo comunicativo passò dagli occhi, dalle orecchie, alla pancia dei fedeli.

Sul tema è allestita al Museo Diocesano di Trento (fino all’11 maggio), L’invenzione del colpevole Il ‘caso’ di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia, a cura di Domenica Primerano con Domizio Cattoi, Lorenza Liandru, Valentina Perini e la collaborazione di Emanuele Curzel e Aldo Galli. Una mostra che con chiarezza, con l’ausilio di strumenti interattivi e una scelta di documenti e opere, spiega quello che è stato il fenomeno di questo presunto infanticidio per la città e per cultura europea, fino alle interpretazioni più recenti, a loro volta non immuni alle pressioni del presente.

Sul processo intentato agli ebrei di Trento esiste un’ampia documentazione su cui si sono esercitati storici e non solo. La stessa Chiesa cattolica ha cercato in più occasioni di stabilire una verità storica, arrivando, nel 1965, all’abolizione del culto di Simonino, al culmine di una revisione critica dei documenti che non è mai stata piana e facile e che ha presentato delle resistenze da subito, già in quel lontano 1475, quando il commissario apostolico Battista de’ Giudici, mandato a Trento da Sisto IV per verificare la veridicità dei fatti e la correttezza del processo, è osteggiato fino alla fuga.
Il ‘caso’ Simonino dice tanto del passato ma anche del presente. Il parallelo con i giorni odierni è fin troppo facile: l’uso dei media da parte del potere, la formazione di pregiudizi sull’altro da sé e la ricerca di capri espiatori (o untori, in epoca di Covid-19), la paura che contagia la politica, e viceversa, le fake news… Senza allargarsi impropriamente, è però certo che l’«accusa del sangue» ha avuto e continua ad avere un ruolo centrale nella costruzione dell’odio antiebraico. Perciò L’invenzione del colpevole fa onore al museo di Trento. Il tema è infatti affrontato con rigore e una particolare attenzione al pubblico, specie quello più giovane, attraverso un racconto pieno di stimoli che inizia nel marzo 1475 e arriva a oggi senza incorrere in nessuna facile semplificazione, né a spartizioni tra buoni e cattivi o vincitori e vinti. È una risposta onesta e compatta, ben argomentata dai molti saggi in catalogo, anche ai dubbi che recentemente si sono espressi sulla decodificazione della «Pasqua di sangue».

La mostra approfondisce anche un aspetto caro agli storici dell’arte: le opere, presentate in connessioni storiche e formali, si rivelano nella loro accezione più ampia, cariche di contenuti iconografici desunti dai verbali del processo ma anche simbolici, utilizzate come strumenti di divulgazione e quindi veicoli per sollecitare una risposta empatica delle masse. In parallelo, negli stessi anni, alle stesse masse erano rivolti i sermoni dei francescani che proponevano di contrastare, spesso in modo violento, l’attività di prestito dei banchi ebraici a fronte della promozione dei Monti di Pietà. Il richiamo più diretto è, appunto, a fra Bernardino da Feltre, che durante la Quaresima del 1475 incitava il «popolo» trentino a «smorbare» la città dagli ebrei, identificati come portatori di pestilenza. Con un’associazione altrettanto toccante, il dissanguamento del bambino era messo costantemente in parallelo all’usura esercitata dagli ebrei.

Le immagini che riprendevano nell’immediato la vicenda di Simonino erano ugualmente persuasive, create con un repertorio riconoscibile per un pubblico popolare: così le xilografie di Albrecht Kunne con gli ebrei con profili ricurvi, cappelli a punta, barbe folte e ricci lunghi sulle tempie a richiamare i payot; Simonino soffocato, ferito e sanguinante, con le braccia tese in forma crucifixi; tutto affogato in una violenza cruda, brutale, esasperata dei tratti sintetici dell’incisione. Sono strumenti figurativi che accomunano le immagini a stampa, la cui diffusione è sollecitata del vescovo Hinderbach già durante il processo, e che diventano a loro volta modelli per affreschi, dipinti e sculture.

La circolazione dell’immagine del nuovo santo nell’area alpina e prealpina della Lombardia veneta è rapidissima, tanto che nella grande rappresentazione del mondo del Liber Chronicarum di Hartmann Schedel, pubblicato a Norimberga nel 1493 – un libro diffusissimo anche grazie all’efficacia delle sue illustrazioni – Trento è identificata proprio con l’episodio del martirio di Simone. Già a ridosso del 1475 sul tema si era speso Vincenzo Foppa, padre della pittura lombarda del Rinascimento, in un dipinto perduto per la chiesa del Carmine di Brescia. Con gli anni, allontanandosi dal processo e dalla necessità di una penetrazione immediata di questa narrazione nella coscienza collettiva, le opere sono sempre più qualitativamente impegnative, pur mantenendo schemi iconografici brevettati. Così per il polittico dell’altare maggiore dei Santi Pietro e Paolo a Trento – cioè la chiesa dov’era conservato e venerato il corpo di Simonino.

Dal grande altare ligneo a portelle intagliato dalla bottega dello scultore tedesco Daniel Mauch tra primo e secondo decennio del Cinquecento, dismesso nel Settecento, proviene il Compianto sul corpo di Simone, riemerso di recente e in mostra insieme a un altro dei tre pezzi che componevano la predella. O, ancora, il San Simonino di Altobello Melone, finito al Castello del Buonconsiglio nel 1948 dopo un passaggio nella collezione di Giuliano Briganti e una storia precedente ancora in parte da chiarire.
Una volta riaperto, nelle sale del Museo tridentino si potrà di nuovo ragionare sui rapporti tra opere, modelli e fonti, o sul senso delle variazioni iconografiche, affrontando così, lungo trame che si dipanano, la vicenda di una comunità locale connessa, per vie sempre più chiare, alla storia della civiltà europea.