Ha sostenuto di voler «liberarsi di un macigno», un peso gigantesco e opprimente che si portava sulla coscienza da trentun’anni: quello di essere corresponsabile dell’uccisione di una ragazzina di appena 11 anni. Antonio Pignataro si è presentato in un’aula di tribunale, ieri l’altro a Salerno, e ha confessato l’omicidio di Simonetta Lamberti, la giovanissima figlia di Alfonso, all’epoca procuratore capo al tribunale di Sala Consilina, nel salernitano.

Non è stata un’udienza come tante altre: si trattava di riesumare una vicenda consegnata all’oblìo, come tante della Prima Repubblica, nell’eterno presente senza memoria in cui siamo condannati a vivere. A testimoniarlo era la presenza, al fianco dei familiari di Simonetta – i tre fratelli e la madre, non il papà – di don Luigi Ciotti. Il fondatore di Libera ha raccolto l’invito di Serena, la sorella che Simonetta non ha fatto in tempo a conoscere e che ne ha raccolto idealmente il testimone. Serena è nata un anno dopo la sua morte ed è impegnata nell’associazione antimafia Libera. «All’inizio mi sembrava un mondo lontano», dice don Ciotti. Guardandolo da vicino ha imparato a conoscerlo. «La confessione di Antonio Pignataro è un segno di speranza. Oggi si rimette in gioco per contribuire a portare pezzi di verità e così fa rivivere Simonetta», spiega ai giornalisti a margine dell’udienza in cui Pignataro ha ammesso la sua partecipazione al delitto e consegnato una lettera e una richiesta di perdono ai familiari di Simonetta.

Quella che è stata riportata alla luce davanti al Gup di Salerno Sergio de Luca è una delle pagine più buie degli ultimi quarant’anni di storia malavitosa in Campania. Ci parla dell’uccisione di una bambina innocente, la prima volta che la camorra ha colpito senza curarsi di possibili “vittime collaterali” delle proprie azioni; di un procuratore della Repubblica discusso per i modi da sceriffo che gli avevano meritato l’appellativo di “Fonzo ‘a manetta” e allo stesso tempo accusato di essere «organico» alla camorra; di una famiglia distrutta dalla morte violenta della figlia al punto da trasformare il padre in quello che il moderno linguaggio della politica definirebbe uno «stalker»; di una guerra, tra la Nuova Camorra Organizzata del “professore” Raffaele Cutolo e la Nuova Famiglia di Carmine Alfieri e dei Galasso, che farà più di 1.500 morti in appena cinque anni; di una vicenda che avrà un impatto così forte sull’opinione pubblica da indurre il Presidente della Repubblica Sandro Pertini a recarsi a Cava de’ Tirreni per scoprire una targa in memoria di quella giovanissima vittima della mafia che le foto d’archivio mostrano sorridente, insieme alla madre, di spalle al mare della Costiera Amalfitana.

Il 29 maggio del 1982 Alfonso Lamberti aveva portato la figlia proprio in spiaggia, a Vietri sul Mare. Stavano rincasando a Cava de’ Tirreni quando una 127 bianca li sorpassò tentando di bloccarli, lungo la statale 18 a Molina di Vietri. Da dietro, un’Audi nera si accostò a loro e dall’interno aprirono il fuoco. Il commando però sbagliò bersaglio, o forse non si curò di distinguere il grano dal loglio, la figlia dal padre. Spararono per uccidere. Simonetta aveva 11 anni, un colpo le trapassò il cranio. Per lei non ci fu niente da fare, a poco servirono il ricovero nel vicino ospedale e un trasferimento disperato al Cardarelli di Napoli. Anche il padre venne colpito, alla testa e alla spalla sinistra, ma si salverà, ricevendo in eredità solo una fastidiosa epilessia e un tarlo che lo perseguiterà per gli anni a venire: quello di dare un’identità agli assassini della figlia, lui esperto di antropologia criminale.

Il caso rimbalzò sulle prime pagine di tutti i giornali, la commozione fu tanta. A Simonetta Lamberti fu intitolato lo stadio di Cava de’ Tirreni, utilizzato per megaconcerti come quello storico dei Pink Floyd e dalla locale squadra di calcio. All’inaugurazione, il 2 aprile dell’83, la Cavese, che all’epoca giocava in serie B, ospitò un Milan provinciale, decaduto, pre-berlusconiano. Finì 2 a 2.

Solo oggi la nebbia attorno a quell’efferato omicidio comincia a diradarsi. Perché si volle colpire in maniera così dura un magistrato noto per le manette facili? Quali interessi aveva toccato? Fu una vendetta dei cutoliani, come si ipotizzò in principio, perché il procuratore era riuscito a far confessare uno dei sequestratori di un banchiere salernitano, Mario Amabile, rapito nel 1977? O c’era dell’altro?

Antonio Pignataro era affiliato alla Nco, da giovanissimo aveva militato persino in una formazione di estrema sinistra. Attualmente in carcere per un altro omicidio, non era stato finora sfiorato dalle inchieste sull’uccisione di Simonetta Lamberti. Neppure da quelle condotte in proprio da Alfonso che, senza pace per quanto accaduto, per risalire ai killer della figlia avrebbe tentato di incontrare, all’Hotel Vesuvio di Napoli, il numero tre della Nco: Salvatore di Maio detto «Tore ‘e guaglione», boss dell’agro nocerino-sarnese che sarà condannato in primo grado come mandante dell’omicidio e poi assolto in Appello per insufficienza di prove. La madre Angela Procaccini non è stata mossa dal desiderio di saperne di più, di conoscere dettagli ed esecutori del delitto, pur dovendo subire minacce e intimidazioni per via delle indagini dell’ormai ex marito. Ma l’altro ieri c’era anche lei in aula.
Mancava invece il destinatario principale dei proiettili dei camorristi. Dalla morte di Simonetta per Alfonso Lamberti sono cominciati i guai. Nel ’93 il boss Galasso raccontò ai magistrati che era «organico» al clan e finì in manette, lui soprannominato «’a manetta», con le accuse di associazione camorristica e corruzione. Ma l’accusa che fece quasi più scalpore della prima fu quella di aver organizzato una vera e propria persecuzione ai danni di un professore ritenuto amante della moglie e di quest’ultima: attentati dinamitardi, persone inviate in commissariato a calunniare la consorte. Infine, fu sospeso dalla magistratura e dall’università di Salerno dove sarebbe dovuto tornare a occupare la cattedra di Procedura penale.

Pignataro avrebbe confessato il delitto a un suo compagno di cella, un camorrista di Afragola, nel napoletano. Sarebbe stato quest’ultimo a spingerlo a parlare con il pm della Direzione distrettuale antimafia di Salerno Vincenzo Montemurro, che negli ultimi mesi ne ha raccolto le confessioni. Contemporaneamente un altro pentito, Giovanni Gaudio, ha raccontato ai magistrati della procura antimafia diretta da Franco Roberti di aver procurato lui la 127 bianca che avrebbe fatto da appoggio ai killer dell’Audi. Pignataro sarebbe stato sulla prima e non avrebbe sparato. Non si può che credere alle sue parole, visto che gli altri quattro componenti del commando nel frattempo sono tutti morti, un paio di loro ammazzati in altrettanti agguati. Quello che ancora non è pienamente chiaro è il movente preciso dell’agguato. Alfonso Lamberti ha sempre sostenuto che «i nomi degli assassini sono scritti nei documenti delle indagini che seguivo», suggerendo che è in quelle carte che il movente va ricercato.

La sua poltrona alla procura della Repubblica di Sala Consilina oggi è desolatamente vuota. Dal 14 settembre il tribunale è chiuso. È finito sotto la mannaia della riforma della geografia giudiziaria varata dal governo Letta-Alfano ed è stato accorpato a Lagonegro, nella vicina Basilicata. Per impedire il trasloco, nei giorni immediatamente precedenti la chiusura sono stati organizzati blocchi stradali e un manifestante ha persino tentato di darsi fuoco in nome della giustizia soppressa. Il Consiglio regionale ora ha depositato in Cassazione una richiesta di referendum abrogativo della legge Cancellieri che potrebbe rimettere tutto in discussione. Dopo l’uscita di scena di Alfonso Lamberti, agli inizi degli anni ’90 sotto la guida del procuratore Domenico Santacroce, lo stesso tribunale ospitò la cabina di regia della Tangentopoli salernitana che travolse il Psi di Carmelo Conte e la Dc di Paolo del Mese. Le sue mura hanno assorbito le confessioni della “gola profonda” Alberto Schiavo, che porteranno al tentativo di cattura più pirotecnico del crollo della Prima Repubblica: il democristiano Gaspare Russo, ex sindaco di Salerno e presidente della Giunta regionale campana, salì su un aereo a Francoforte diretto a Napoli senza scalo. Ma gli agenti che lo aspettavano a Capodichino rimasero con il mandato di arresto in mano. “Gasparone”, un omone grande e grosso, si era volatilizzato senza lasciare tracce. Prima di essere preso a Parigi dopo tre anni di latitanza, riuscì a sfuggire ad altri tre tentativi di cattura.