Bisogna dirlo subito: la ricostruzione del percorso artistico di Simone Peterzano (1535 circa-1599), il pittore noto come maestro di Caravaggio, è stato parecchio accidentato. Dopo un oblio secolare, il suo recupero critico è un fatto recente, recentissimo per la prima parte della carriera. Fino a pochi anni fa (per certi versi, fino ad ora) Peterzano ha navigato a vista nelle acque confuse del secondo Cinquecento a Milano. Il suo porto di partenza, Venezia – dove è nato da una famiglia bergamasca e dove ha lavorato fino alla fine degli anni sessanta del XVI secolo –, è stato offuscato da un’insistenza dello stesso artista nel dichiararsi «Titiani alumnus» che Roberto Longhi aveva ritenuto «una posa, un gesto aulico, una pomposa dichiarazione di quarti nobiliari». Nella sua lettura del Dna tutto lombardo di Caravaggio, Longhi escludeva infatti l’intromissione della pittura veneziana: la ricostruzione novecentesca della prima parte della vita di Peterzano ne faceva in qualche modo le spese.
Sono quindi molte e sacrosante le ragioni a monte della mostra Tiziano e Caravaggio in Peterzano, a cura di Simone Facchinetti, Francesco Frangi, Paolo Plebani e Maria Cristina Rodeschini, all’Accademia Carrara di Bergamo fino al 17 maggio. Un’esposizione che raccoglie le novità sul pittore emerse negli ultimi anni, chiarendo gli esordi lagunari più complessi, più stratificati e perciò più misteriosi di quanto lo stesso Peterzano lasciava intendere con la qualifica «de Tiziani» aggiunta in molte occasioni al proprio nome. Di più: sistemare la giovinezza di Peterzano significa anche trovare conferme sulla Milano della seconda metà del Cinquecento. Perché un pittore formatosi a Venezia si inserisce così bene in città? Lo anticipavano straordinarie testimonianze della civiltà figurativa lagunare della quale è difficile sopravvalutare l’importanza, come la Coronazione di spine di Tiziano, in Santa Maria delle Grazie dal 1543 (ora al Louvre), e altre figure che sulla tratta Venezia-Milano avevano investito molto, come Paris Bordon, Giovanni Demio, Aurelio Luini, Giovanni da Monte.
1572, l’arrivo a Milano
Insomma, nel 1572, nella Milano in cui arriva Peterzano, attestarsi come alunno del Vecellio è una garanzia di autorevolezza ma anche una dichiarazione di modernità. E che cosa si muovesse dentro l’officina di Tiziano possiamo immaginarlo. Vi dovettero transitare, anche per breve tempo, tantissimi artisti dalle provenienze e dalle esperienze più varie. Il cadorino, dice Vasari, non era «molto vago d’insegnare a’ suoi giovani», ma era il pittore più noto e richiesto dell’epoca e calamitava frotte di nuove leve da tutta Europa. Nelle opere che compongono la prima parte della carriera di Peterzano raccolte a Bergamo quella complessità riaffiora.
Simone è inizialmente preoccupato di fondere le figure dentro un’atmosfera di luce diffusa, e soffusa, per velature delicate: così nell’Annunciazione del museo di La Fère, in Piccardia, riscoperta da Christophe Brouard nel 2012. Poi su queste figure ancora di matrice tizianesca s’innesta uno sguardo su Veronese, sulle forme più ricche, più piene del Caliari, e vi s’insinuano anche certe ricercatezze nella variabilità delle pose desunte da Tintoretto. Alla Carrara sono montati dei confronti parlanti, Veronese-Peterzano, Tiziano-Peterzano eccetera, più difficili da descrivere qui in poche parole che da verificare sulle pareti del museo, in rapporti ritrovati che rivelano affinità e antiche relazioni.
È stata la scoperta della sua produzione profana a modificare radicalmente l’immagine dell’artista. Non può che legarsi alla cultura veneta infatti l’Allegoria della Musica, concepita in una città in cui la musica interessa tutti i livelli sociali e la cui rappresentazione si inserisce bene in una tradizione figurativa di stampo giorgionesco. Con un sistema quasi fabbrile di riproposizione delle invenzioni, la stessa discinta suonatrice di un Concerto del museo di Schwerin riappare in diverse Allegorie della Musica riproposte da Peterzano per tutta la carriera.
Ma le due opere che più dicono sul pittore, sui rapporti con il suo passato, e sul suo futuro milanese, sono la Venere e Cupido di Brera e l’Angelica e Medoro della Galerie Canesso. Nella prima, attribuita a Simone da Mina Gregori nel 1990, la condotta pittorica è smaltata, brillante, le figure tornite e plasticamente consistenti, l’atmosfera è raffreddata in un’aria tersa, senza l’umidità palpabile e l’impasto di luce delle prime prove. Certo, a monte ci sono ancora i modelli di Tiziano, ma il quadro raccoglie altre esperienze, una famigliarità con la tradizione dell’entroterra – Licinio, Moretto, Savoldo –, ma anche una sintonia sotterranea con linguaggi che senza difficoltà si dovevano incrociare a Venezia, e ancora di più nei viavai delle botteghe di Tiziano e Tintoretto, tra pittori e incisori fiamminghi o tedeschi. Adagiata su accostamenti cromatici veronesiani sta infatti una Venere algida, fatta non di carni palpitanti ma levigata come una perla, in un’intesa particolare con certe soluzioni del manierismo nordico. La tela, a Bergamo, è in buona compagnia, tra gli amori sensuali degli dei rappresentati da Tiziano e le invenzioni infinite di Tintoretto dove le tresche dei miti antichi si rispecchiano in una commedia della quotidianità (in Venere, Vulcano e Marte il marito torna; l’amante è nascosto sotto il letto; il cane abbaia: come andrà a finire?).
L’Angelica e Medoro è tra le opere più importanti di Peterzano. Celebrata dai versi di Lomazzo, nella tela è rappresentato l’episodio, tratto dall’Orlando Furioso, nel quale l’avvenente Angelica soccorre Medoro ferito in mezzo a una foresta «Con gl’arbor dal sol tinti» dove «Veggonsi intorno uccisi et vivi finti». Alla fine del suo madrigale Lomazzo sosta proprio sulle fibrillazioni di quella luce smeraldina e dorata insieme, che attraversando le fronde rompe l’ombra con un naturalismo che dovette colpire molto nella Milano del tempo, rimandando subito al magistero di Tiziano.
Il quadro è realizzato per il milanese Gerolamo Legnani. Era dello stesso facoltoso collezionista – ed è una delle tante novità della mostra – la Deposizione su ardesia del museo di Strasburgo. Già attribuita da Longhi nel 1920, dev’essere pressappoco coeva all’Angelica e Medoro. Ha i medesimi accordi cromatici, e scelte espressive – come gli allungamenti delle figure un po’ Sustris, o le alte croci stagliate sulla notte – che sembrano declinare spunti, di nuovo, eterodossi, in un nitore di smalti che è quello stesso dei grandi quadroni di San Barbana, 1573-’74, freschi di restauro e posti all’inizio della mostra.
I due teleri di San Barnaba
Almeno dal 1572 Peterzano si muove con agio a Milano. Quell’anno è lo stesso Legnani a fare da garante al pittore per gli affreschi da realizzare in San Maurizio al Monastero Maggiore, poi, appunto, vengono i lavori di San Barnaba, i due teleri più grandi che Simone abbia mai dipinto, affollati di varia umanità: attori, comparse, ritratti, l’enfasi dei gesti, la ricchezza dei costumi… come per strafare, questa parata inghiotte le storie sacre dei santi Paolo e Barnaba. Ma Milano non è Venezia e lo stesso artista nel 1580 dovrà «reconciarne» le parti più critiche di quei dipinti. Riprendendo Longhi, da qui in poi tutto si raggela nei «bianchi aridi, porosi, secchi che rivestono i certosini di Garegnano».
È il Peterzano più noto, da manuale. Quello, appunto, del ciclo della Certosa di Garegnano, restituito al pittore da Longhi già nel 1917. In questa Milano teatro della «sommossa dei Campi» e della formazione del Merisi il nuovo austero, «quasi bigotto» vecchio Simone, si muoveva «con sicuro consenso» scialbando il naturalismo sensuale, brillante, della giovinezza, con una velatura d’albugine, autocensurandosi, riducendo tutto ai valori iconici funzionali alla severità della Controriforma. Quei sodi toni «biancogrigi» fruttificano nelle prime predilezioni di Caravaggio. Come nel Bacchino malato della Borghese, che chiude, insieme ai Musici del Met, la lodevole rassegna bergamasca.