«Insieme avevamo lottato contro il destino melmoso che ci aspettava al varco, e per molto tempo ho pensato che avevo pagato la mia libertà con la sua morte»: al termine delle Memorie di una ragazza perbene, primo volume della sua autobiografia, Simone de Beauvoir ricorda così l’amica geniale della sua infanzia e adolescenza, Élisabeth Lacoin, detta Zaza, studentessa brillantissima, musicista talentuosa, che, appena ventunenne, mentre lottava per difendere dall’ostracismo di una rigida famiglia altoborghese la sua storia d’amore con il futuro filosofo Maurice Merleau-Ponty, fu uccisa da una malattia fulminea, probabilmente un’encefalite virale. All’epoca Beauvoir attribuì quell’ostracismo a una generica diffidenza per gli intellettuali e per i matrimoni non combinati dai parenti, e rimproverò a Merleau-Ponty (conosciuto dall’amica per suo tramite) di non averlo combattuto abbastanza. Solo dopo l’uscita delle Memorie, avrebbe appreso che c’era un altro motivo, per i tempi assai scabroso: i cattolicissimi genitori di Zaza avevano scoperto che Merleau-Ponty era figlio non del padre anagrafico ma di una relazione extraconiugale della madre. Il senso complessivo dei fatti le fu comunque immediatamente chiaro: la morte repentina dell’amica le parve un assassinio, un effetto estremo delle proibizioni e dei tabù di un ambiente retrivo, a cui nello stesso periodo (anche grazie alla decadenza economica della sua famiglia e alla conseguente necessità di lavorare) lei si stava definitivamente strappando.

Nessi strettissimi
Rievocò la vicenda in tutte le sue prime prove narrative, da due romanzi restati nel cassetto a un racconto compreso nella raccolta Lo spirituale un tempo (rifiutata dagli editori, poi pubblicata nel 1979); insoddisfatta dei risultati, finì per accantonare l’idea, ma prima di parlare direttamente di Zaza nelle Memorie, tornò, nel 1954, a imperniare su di lei un romanzo breve, di cui rimase però ancora scontenta: romanzo che, finora inedito, è stato dato alle stampe quest’anno dalla figlia adottiva della scrittrice, Sylvie Le Bon, e, con il titolo scelto da lei, Le inseparabili, esce adesso anche in Italia per Ponte alle Grazie, nell’efficace traduzione di Isabella Mattazzi (pp. 208, € 15,00).

Nella dedica a Zaza, Beauvoir sottolinea il dislivello tra vissuto e reinvenzione («questa non è veramente la sua storia ma soltanto una storia ispirata a noi»); Sylvie Le Bon ha invece evidenziato il nesso tra i due piani, corredando il libro con fotografie delle due amiche e riproduzioni di alcune loro lettere. Del resto, come il raffronto con le Memorie permette di constatare, il nesso stavolta è strettissimo: le due figure centrali, Andrée e Sylvie, seguite, attraverso un’alternanza di riassunti e scene, dall’infanzia alla prima giovinezza, sono vistosamente modellate su Zaza e sull’autrice; e Pascal, il ragazzo a cui Andrée si lega, adombra Merleau-Ponty (nell’autobiografia ribattezzato Jean Pradelle).

Ma più dei personaggi, è il mondo dell’alta borghesia benpensante il vero protagonista del romanzo. La trama ne ritrae i pregiudizi intransigenti, gli interessi meschini e il dispotismo ipocrita, nelle loro forme più quotidiane e felpate: i discorsi di una zia che predica il «colpo di fulmine sacramentale» (secondo cui le coppie unite dalle famiglie si innamorerebbero appena congiunte in matrimonio); quelli di una madre che informa le figlie delle realtà sessuali nel modo più crudo (per farle meglio apparire ineludibile quanto sgradevole dovere) e afferma che la sola alternativa alle nozze è il convento, perché «il celibato non è una vocazione»; le discussioni tra i conservatori devoti al Papa e quelli partigiani dell’Action Française; l’atmosfera insieme noiosa e morbosa delle feste in cui «giovani cristiane troppo ben addestrate a dimenticarsi del proprio corpo» sperimentano il turbamento del ballo, allora unica possibilità di contatto con gli uomini consentita alle ragazze; la villa di campagna (con un vestibolo che profuma «di crème caramel, di cera fresca e di vecchio granaio», una biblioteca zeppa di volumi religiosi e ritratti di antenati, una cucina sovraccarica di utensili e una cantina stracolma di cibi) in cui la vita è scandita da messe, partite a tennis, partite a bridge e picnic in riva al fiume, in cui si mangia fino allo sfinimento, si imbastiscono fidanzamenti, si ostenta un’armonia che cela tensioni e amarezze.

I giovani che eludono o sfidano questo mondo non hanno lo stesso rilievo. La Sylvie narratrice, intellettualmente agguerrita ma sentimentalmente inesperta, è confinata nel ruolo di testimone; resta appena abbozzato il Pascal innamorato titubante, trattenuto un po’ dagli interdetti cattolici sull’eros, un po’ dalla riluttanza a entrare davvero nella vita adulta. Ben maggiore risalto viene dato all’Andrée in bilico tra obbedienza e ribellione, che è attaccata alla madre ma cerca di tenerle testa, crede in Dio ma chiedendosi cosa voglia da lei, assolve innumerevoli incombenze domestiche e mondane ricavandosi ritagli di tempo per leggere e suonare il violino, si dà un colpo d’accetta su un piede pur di sottrarsi brevemente alla snervante socialità obbligata; ma la sua complessità non è sviluppata abbastanza: Beauvoir, che (come dichiara nell’autobiografia) aveva adorato la sua amica senza capirla mai del tutto, non osa nemmeno con la fantasia esplorarne a fondo la personalità.

Probabilmente perciò, come ricorderà nella Forza delle cose, giudica il romanzo «non interessante», e perciò rinuncia a pubblicarlo: non, come hanno sostenuto alcuni articoli, per un veto di Sartre (che, a quanto ancora lei riferisce, si era limitato a condividere la sua perplessità) o per l’imbarazzo di mettere a nudo quella che sarebbe stata la sua prima passione lesbica.

Un simbolo doloroso
Di fatto, il rapporto tra i due scrittori, che ora si tende a presentare come un classico modello di oppressione maschile, era invece un’intesa intellettuale delle più paritarie, nutrita pure di vicendevoli critiche ai rispettivi libri; e se effettivamente Beauvoir ha taciuto sempre i suoi legami omosessuali (emersi da lettere e diari usciti postumi), Zaza per lei sembra aver costituito qualcosa di diverso: un’amicizia sospesa tra attrazione e sodalizio, un’interlocutrice tanto più essenziale in quanto mai completamente decifrata, un doloroso simbolo della difficoltà e della necessità di affrancarsi dai condizionamenti borghesi. Una figura insomma così importante da impacciare i suoi sforzi di darle forma narrativa, e da segnare d’altra parte tutti gli aspetti principali della sua opera, dall’esplorazione nel Secondo sesso dei preconcetti e dei divieti che hanno intralciato l’emancipazione femminile, all’analisi in vari romanzi del faticoso e decisivo confronto con l’alterità: se quella che lei chiama, nell’ultima lettera indirizzatale, «caro passato, caro presente, mia cara inseparabile», non ha ottenuto mai nella sua produzione posto sufficiente, ne è stata di sicuro cruciale molla propulsiva.