Alla morte di Vladimir Majakovskij, nel 1930, Roman Jakobson scrisse un epicedio memorabile cui diede il titolo Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Elenca i poeti fucilati (Gumilëv), suicidati (Esenin, oltre allo stesso Majakovskij), morti di stenti (Blok, Chlebnikov). Tutti spariti fra i trenta e i quarant’anni. Ne aveva settanta, invece, Simone Carella quando è morto dopo lunga malattia, il 28 settembre, in una clinica romana.
Ma è vero quanto scritto dall’amico e complice Franco Cordelli: «A un certo punto mi sono guardato attorno e mi sono chiesto: perché i registi che ho amato sono già morti? Morti dal punto di vista teatrale o anche, purtroppo, in senso letterale. I grandi sperimentatori degli anni Settanta – Simone Carella, Ugo Margio, Bruno Mazzali, Giancarlo Nanni, Memè Perlini, Mario Ricci, Gianfranco Varetto, Giuliano Vasilicò – si sono tutti consumati, fisicamente consumati, nella ricerca delle risorse e degli spazi per poter continuare a lavorare». Gli ultimi anni di Carella sono stati una successione di illusioni e di smacchi: coi manager rampanti che dopo interminabili anticamere gli facevano tanti complimenti e, cortesemente, lo mettevano alla porta.
L’ultimo suo progetto era di commissionare, agli scenografi dell’avanguardia romana che fu, una serie di affreschi nel foyer del Teatro India, che raccontassero la leggenda di quegli anni Sessanta e Settanta. L’album di un passato glorioso, soprattutto un monito per lo stinto presente. Ridotto a uno scheletro nel suo letto d’ospedale, gli occhi enormi, liquidi e mobilissimi, mi ha stretto le mani Simone e ha ripetuto: «vedrai che lo faccio, l’affresco».
1985, VERSO LA FINE
Un paio d’anni fa ha spiegato lo stesso Carella, alla fine di una bella intervista che gli ha fatto su doppiozero Luca Lo Pinto: «tutta questa stagione si conclude nel 1985 con la fine dell’assessorato di Nicolini. Quello che era un processo creativo spontaneo comincia a istituzionalizzarsi. Non a caso, nel 1986 nasce RomaEuropa con l’ingresso di capitale finanziario come Ina Assitalia». Nell’85 Carella ha meno di quarant’anni: tornano, i conti di Jakobson.
Ma cos’era, Carella? La dizione «regista di teatro» non pare dire nulla. Sebbene gli storici, come Valentina Valentini, gli abbiano riconosciuto un ruolo di primo piano in quella che Giuseppe Bartolucci definiva, allora, la «postavanguardia» anni Settanta (divinandone peraltro il destino di dissipazione: nel «rifiuto del prodotto a favore dell’esperienza»). In spettacoli come La morte di Danton o Autodiffamazione, del ’75-76, Carella portava all’estremo la sublimazione dei performer in astratte architetture di luce in cui le frontiere disciplinari non venivano messe in discussione, semplicemente se ne prescindeva: «la mia volontà era di animare un luogo dove si scambiavano continuamente le esperienze e pratiche artistiche senza distinguere tra teatro, musica, poesia, arte visiva, danza e arti performative».
C’era, alle spalle, tutto il suo percorso. L’odissea del «giovane povero» che a quindici anni, da Carbonara di Bari, si rifugia a Roma, fa il fattorino del sarto Capucci e un bel giorno i capelloni lo portano a teatro, al Dioniso. Lui s’imbuca e scopre un mondo.
Lì Giancarlo Celli mette in scena i testi del Gruppo 63, come Fecaloro di Pagliarani. Vede passare tutto e tutti, Simone. Il Living Theatre e Grotowsky. Carmelo Bene, Leo e Perla. Gli Uccelli nel Sessantotto. Legge Debord e Richard Schechner sull’enviromental theater – la sua più autentica ispirazione resterà quella di inventare luoghi.
Era un tempo in espansione: nel quale non solo i linguaggi si propagavano l’uno nell’altro, ma fisicamente si abbandonavano i luoghi tradizionali (l’ultimo festival di poesia, Simone lo ha inventato a Corviale): l’Orlando Furioso in piazza di Ronconi e Sanguineti (1969), Contemporanea di Bonito Oliva nel sotterraneo di Villa Borghese (1973). Carella si divide fra l’Attico di Fabio Sargentini, dove fa il «factotum» (una parola che gli piaceva assai) per i Kounellis e gli Smithson (nel ’72 va a processo per sequestro di persona, per lo scandaloso allestimento di Gino De Dominicis, Seconda Soluzione di Immortalità, col giovane down esposto alla Biennale), e il teatro-cantina Beat 72, fondato da Ulisse Benedetti. Lì fa suonare La Monte Young e Terry Riley. Lì inventa con Cordelli, nel ’77, le performance del Poeta postumo, con la città rintanata.
L’ARCHIVIO DEL BEAT 72
Due estati dopo, il big bang di Castelporziano: la Woodstock della poesia con ventimila spettatori sulla spiaggia, in cui la poesia espansa si trasforma in teatro narcisistico, insolente profezia del mare della soggettività – come lo chiamava Dario Bellezza – in cui tuttora naufraghiamo.
Infiniti altri i ricordi che Simone ti regalava, senza nostalgie né smanie di protagonismo. Sempre rivolto agli altri, ora come allora. E a te, che non avevi visto niente, all’improvviso pareva di vedere tutto – riflesso nei suoi occhi. Quegli occhi così grandi e aperti nei quali il suo corpo prosciugato, alla fine, pareva volersi concentrare tutto.
Lo sforzo «documentario» degli ultimi anni – le dirette in streaming dell’E-Theater, le infinite riprese video con Areta Gambaro, il Romanzo di Castelporziano con Stampa Alternativa, le interviste a Lo Pinto o alla figlia Elettra, che si spera potrà presto ordinarle, come l’archivio del Beat 72 – si lascia intendere come un tentativo, epico nella sua impossibilità, di restituirci il mare di vita di cui Simone Carella è stato testimone.
Erano i suoi occhi, il vero affresco.