Nel cuore del Bois de Boulogne, a Parigi, si erge un enorme edificio che ricorda un veliero. Si tratta della Fondazione Louis Vuitton, che il 17 maggio scorso ha inaugurato l’importante mostra Simon Hantaï. L’exposition du centenaire, che chiuderà il 29 agosto 2022.

Simon Hantaï (1922-2008), uno dei grandi pittori francesi del Secondo Dopoguerra, inizia la sua formazione artistica in Ungheria in modo piuttosto tradizionale, per poi trasferirsi in Francia dove si unirà per breve tempo al gruppo Surrealista. Dopo questa parentesi, comincia il suo percorso verso l’astrazione attraverso varie fasi che lo porteranno, infine, ad approdare alla tecnica che lo ha reso celebre: il cosiddetto pliage.

Il pliage consiste essenzialmente nel piegare la tela seguendo delle forme predeterminate o in modo casuale, dipingendo le parti rimaste esposte, per poi aprirla rivelando l’opera completa allo sguardo del pittore stesso, il quale dunque non può in alcun modo prevedere l’esito della pittura prima che essa venga dispiegata. L’intento è quello di utilizzare un metodo che si concentri sul supporto, ovvero la tela, banalizzando in questo modo la pittura e il ruolo stesso del pittore, in un percorso che avversa l’idea di genialità dell’artista tipica della società occidentale sin dal Romanticismo.

Come scrive Didi-Huberman: «Hantaï aveva, della creazione, un sentimento iperbolico e radicale. Nessun compromesso possibile. La pittura, la pittura e sempre la pittura, e questo fino ai limiti, vale a dire oltre quelli imposti nei contesti di tutta la storia dell’arte. Intendeva la creazione nel senso più umile e artigianale , ma anche nel senso più inumano, il più filosofico, il più metafisico, o, se vogliamo, il più biblico che sia mai stato».

Grazie al metodo del pliage, Simon Hantaï diventerà celebre a partire dagli anni Sessanta fino a quando, dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1982, deciderà di ritirarsi a vita privata e dal circuito di musei e gallerie per oltre dieci anni. In questo lasso di tempo, pur rifiutando le logiche del mercato dell’arte, continuerà tuttavia le sue ricerche, sperimentando anche, negli ultimi anni della sua vita, metodi digitali come la serigrafia.

La mostra alla Fondazione Vuitton si propone di presentare il percorso di Hantaï attraverso il pliage, concentrandosi dunque sul tema della piega e scegliendo in particolare opere monumentali: a partire dalle prime, embrionali riflessioni degli anni Cinquanta fino agli ultimissimi lavori da lui prodotti negli anni che vanno dal 2004 al 2008, per la maggior parte mai esposti al pubblico.

La presentazione della mostra nel video della Fondation LV

Dopo un breve ma significativo excursus nel periodo che potremmo definire pre-pliage, composto da opere che si avvicinano molto all’Espressionismo Astratto o che sfuggono a ogni etichetta come la monumentale Écriture rose, una tela ricoperta di testi copiati dal messale o dai grandi filosofi del passato, si passa ai primi esperimenti legati al pliage, per poi presentare un’ampia selezione di opere create con tale metodo distintivo.

Tuttavia, la parte più interessante è quella che si dispiega al primo piano della Fondazione. In queste sale si possono ammirare le Laissée e altre opere poco studiate anche dalla critica, i cosiddetti Pliages drippés, ovvero «pliages ottenuti attraverso il dripping». A completare e arricchire il percorso espositivo, viene presentata una ricostruzione del suo atelier e una selezione dei suoi ultimi lavori (i Suaires, gli h.b.l. e le Tabulas Lilas), ma anche alcune opere che permettono un confronto tra Hantaï e i suoi ispiratori e successori, come Matisse e Pollock, Parmentier e Buren, che per l’occasione ha realizzato delle installazioni in-situ.

Ci si potrebbe chiedere, sapendo che nel 2013 il Centre Pompidou aveva già dedicato una grande retrospettiva ad Hantaï, che cosa abbia di diverso questa mostra. Ebbene è proprio la curatrice, Anne Baldassari, a rispondere dichiarando che, mentre la mostra proposta al Pompidou aveva, per l’appunto, un evidente carattere retrospettivo, che necessitava dunque di dare lo stesso spazio a ogni fase della sua produzione, qui invece si è seguito un percorso che desse importanza proporzionale alle serie, eliminando quasi del tutto, ad esempio, il periodo Surrealista e dando maggiore rilievo alle ultime opere, quasi totalmente assenti nella mostra del 2013.

Così, le enormi tele avvolgono chi le guarda fino ad arrivare a una serie che si potrebbe quasi definire ipnotica, le Tabulas Lilas. Si tratta di grandi Tabulas bianco su bianco, o meglio bianco su tela non preparata, che creano un effetto di straniamento, di perdita della gravità. Di fronte a questo mare di bianco è come se non ci fossero più appigli, la vista si offusca e pare di essere immersi in un sogno. E, se si guarda abbastanza a lungo, forse è possibile cogliere quella lieve luce lilla, immateriale e onirica, che dà il nome a questa serie. Marcelin Pleynet descrive queste opere poeticamente come «nient’altro che il tutto bruciante dell’identità della sua propria luce», quella stessa luce che è anche «promessa mantenuta». Tutto questo, unito al fatto che le tele sono esposte in una sala soprannominata «la cappella», permette di vivere un’esperienza al limite dello spirituale.

Analizzando il percorso proposto dalla mostra si può seguire la carriera di Hantaï, che procede inesorabilmente verso la dissolvenza della pittura, la ricerca del «grado zero», la spoliazione della facile bellezza pittorica. Se prima del ritiro l’artista produce opere grandiose, durante il suo periodo di silenzio e quando torna sulla scena artistica internazionale si concentra su opere di formato ridotto, e sperimenta sempre più cercando di arrivare a un punto in cui sia la pittura a farsi da sé, anche impiegando espedienti particolari come sotterrare, ritagliare, incollare le opere precedenti, o producendo dei pliages con gli stracci utilizzati per pulire, fino ad arrivare a un punto estremo che esce dalla pittura stessa: quello della serigrafia e dell’elaborazione digitale.

Si tratta di una ricerca animata da una sorta di ascetismo, una forma di meditazione che comincia con la copiatura di testi su Écriture rose e arriva fino alla fine della sua vita, caratterizzata dalla scelta di pratiche ripetitive che però, in modo quasi miracoloso, producono un risultato sempre nuovo e diverso, che rende ogni opera unica. Hantaï si getta anima e corpo nella sua ricerca, con totale dedizione per la pittura, cercando sempre, sperimentando, per trovare un qualcosa che, forse, non può esistere se non in astratto. Jean-Luc Nancy coglie perfettamente questo suo anelito quando scrive: «ha voluto dipingere per provare, per condividere la venuta di ciò che viene. Ossia il desiderio, l’attesa che sia, qualunque cosa sia».