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Simenon, un intruso di razza al Quai des Orfèvres

Simenon, un intruso di razza al Quai des OrfèvresSimenon fotografato da Paul Buisson davanti al Quai des Orfèvres a Parigi, collezione John Simenon, courtesy Adelphi edizioni

Istituzioni e narrativa In questi reportage anni ’30 dalla sede della Giudiziaria di Parigi, l’inventore di Maigret svela il funzionamento mostruoso di una macchina da romanzo: «Dietro le quinte della polizia», Adelphi

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 gennaio 2023

Nel 1935 si verificarono a Parigi 69 omicidi o tentati omicidi. In periferia, 47. Una vera metropoli moderna! Non sappiamo esattamente fin dove il cronista di allora si spingesse a comprendere la «periferia», né se i numeri siano anche solo vagamente comparabili, ma entro i confini di quello che oggi si chiama Grand Paris – negli anni 2020, ’21 e ’22 – per la stessa fattispecie criminale si è sempre superata la ragguardevole soglia di 200. Non è un paese per vecchi commissari, si direbbe: il più delle volte, le rivoltelle che fanno fuoco nelle inchieste di Maigret sembrano muoversi al rallentatore, come in una innocua pantomima. Niente a che vedere con le armi automatiche con le quali, sempre più spesso, qualcuno decide di spargere sangue innocente sui marciapiedi di quella che fu la città dei café.

D’altra parte, l’attendibilità dei dettagli non è mai stato il pregio delle pagine di Georges Simenon, il quale, proprio per affinare le sue conoscenze «tecniche», spese diverso tempo, all’inizio degli anni trenta, in compagnia della polizia parigina di stanza presso il leggendario palazzo di giustizia lungo il Quai des Orfèvres. Da quella esperienza nacquero diversi «reportage», da poco raccolti e pubblicati nella «Piccola Biblioteca» Adelphi con il titolo Dietro le quinte della polizia (traduzione di Lorenza Di Lella e Maria Laura Vanorio, con una nota di Ena Marchi e un bellissimo dossier fotografico con scatti d’epoca, pp. 281, € 16,00). In essi, naturalmente, non è l’elemento giornalistico a spiccare. Le statistiche degli assassinii servono al reporter d’eccezione soltanto a trasmettere una vaga idea del lavoro cui fanno fronte les flic.
Invitato dalla stessa polizia giudiziaria a visitare la propria sede principale per seguirne i lavori, lo scrittore si incarica in primis di smitizzarne la figura minacciosa: «Vi assicuro che non è un luogo spaventoso. Anzi, direi che è piuttosto alla buona», e a differenza dei commissari americani, quelli francesi «non sono neanche campioni di pugilato (…) No! È Parigi che, vista dalla Polizia giudiziaria, sembra un luogo spaventoso, con quel brulicare di quattro milioni di esseri umani».

Addentrandosi nelle inchieste della polizia, soprattutto nell’eponimo e più cospicuo reportage, Simenon si tradisce subito: fingendo, o quasi, di basare la sua riflessione sui dati degli archivi, abbozza un ritratto del suo assassino ideale, quello che popolerà decine di suoi romanzi, soprattutto tra i «Maigret»: «Al Quai des Orfèvres circola un assioma che chiunque vi ripeterà senza la minima esitazione: “Tutti gli assassini sono degli imbecilli”. A prima vista sembra una battuta. Ma pensateci bene e vedrete che è la pura verità. Un assassino, si sa, uccide per rubare, o per avere un’eredità, o per intascarsi l’indennizzo di un’assicurazione. È un lavoro ingrato, sporco e volgare: ascia, coltello o revolver, un lago di sangue, impronte, vestiti macchiati, biasimo generale e, in definitiva, la certezza pressoché assoluta della ghigliottina. Invece un truffatore, un criminale internazionale, un falsificatore di assegni o un borseggiatore riescono a procurarsi gli stessi soldi, e anche di più, senza uccidere. Sicché possiamo affermare questo: “Un assassino intelligente deciderebbe di diventare un truffatore; un truffatore idiota finirebbe per ridursi a fare l’assassino”».

Scorrendo i rapporti della giudiziaria, lo scrittore lascia affiorare (deliberatamente?) le trame dei suoi libri, e nei suoi commenti si rivela, a tratti quasi represso, il mostruoso funzionamento della macchina-da-romanzo chiamata Simenon: tutto sembra presentarsi come scritto da lui, inventato di sana pianta per stare in un suo libro. Gravidi di personaggi e di sequenze narrative, i suoi reportage si tengono distinti dalla narrativa vera e propria solo perché presentati con un timbro leggermente più allegro, più complice, e in definitiva più disimpegnato (a pagina 86 compare anche una gustosa parodia del portamento di Maigret e di Sherlock Holmes).

Di dossier in dossier, di crimine in crimine, dai misfatti del Bois de Boulogne – gremito di meretrici e imbroglioni (ciò che novant’anni dopo non sembrerebbe essere cambiato poi molto) – alla descrizione spietata della Montmartre «posticino tranquillo», si va via via componendo un unico, paradossale reportage, allarmante e innegabilmente divertito, sulla Parigi anni trenta: uno dei rari che si discosti dal canone della «festa mobile», anche quando l’autore stesso sfiora una definizione simile, e rievocando il chiasso dell’antico Pont-Neuf, finisce per descrivere «una fiera in continuo movimento».

E poi, giunto all’ultimo fait-divers, pressato forse dalla messe di materiale narrativo sulla quale ha messo le mani, Simenon sembra congedarsi in fretta dal giornalismo, per fare ritorno all’amata casa: l’invenzione. Perché, come farà dire a se stesso nelle Memorie di Maigret, opportunamente citate nella nota conclusiva, «La verità non sembra mai vera».

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