Potremmo dirlo un romanzo plastico, di volumi, un ritratto a molteplici dimensioni, una scultura più che un quadro. Se non fosse che dell’immobilità riconosciuta alle statue non ha proprio nulla: è mobilissimo, fitto di fili sovrapposti, oscillante tra affilate percezioni del presente e affioramenti dal sobbollire della coscienza.
Statuario, invece, è il suo protagonista, sempre pieno del suo corpo – malato o sano – e abituato a esibirlo incrollabile, vibrante. È Maugin, «il grande Maugin», che dà spessore unico a Le persiane verdi di Georges Simenon ottimamente ritradotto per Adelphi, un cinquantennio dopo la sua apparizione italiana, da Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio («Biblioteca», pp. 208, € 19,00).

Scritto in undici giorni
Questo romanzo ambizioso, scritto in undici giorni all’alba del 1950, non può certo occultare il mestiere – ce n’è tanto, come sempre –, e tuttavia rivela, dopo vent’anni di romanzi «durs», lasciata la scrittura «alimentare», una diversa morsa sulla pagina, un segno più incisivo, un ghermire più vasto, e tenuta e ritmo sbalzati intorno al protagonista imponente e solo. Nella tessitura narrativa c’è un’ostinazione – intendo – che è anche tutta di Maugin e della sua resistenza alla fatica, e c’è la lucidità con cui, attore ora famoso, può guardare a passate umiliazioni, e c’è anche, nei costituenti della scrittura, quell’insanabile distanza dagli altri e da sé che per paradosso, in lui, non è mai priva di pathos: le scelte stilistiche, il progredire del romanzo non solo attraverso la tessitura (ché saremmo ancora al quadro) quanto attraverso la compatta stratificazione degli sprazzi memoriali, sono a pieno titolo altri modi, testuali, letterari, di raccontare il personaggio.
Se Simenon osava riconoscere nelle Persiane verdi «il libro che i critici mi chiedono da tanto tempo e che ho sempre sperato di scrivere», è per questa coesione possente tra eroe e costruzione stilistico-narrativa. L’attore è capace di guardarsi da fuori quando fa le smorfie per divertire la piccola Baba, quando si vergogna di aver vomitato, sbronzo, nel bagno di casa, quando crudelmente costringe un insulso impiegato (suo figlio naturale!) al vino rosso impedendogli di vedere la moglie prima dell’intervento che le sarà fatale. Maugin sa osservare, come fosse di un altro, il puntiglio, il rigore con cui costruisce il mito di sé a uso del pubblico. Sa vedersi sul palco ogni sera e sul set ogni mattina, come e meglio di un estraneo. E così sa guardare Simenon al proprio lavoro, al proprio fertile rigore. Anche questo è un tratto di fascino del personaggio e del romanzo al tempo stesso. Per un verso, la possibilità di leggervi in filigrana, narrato altrimenti, l’approdo alla fama dello scrittore di Liegi, da inizi oscuri e faticosi a riconoscimenti brillanti e condivisi, e per l’altro, la condensazione nel protagonista di marche caratteriali e inclinazioni che appartengono, in forma parziale e disseminata, a tanti altri personaggi dei suoi romanzi: l’ansia di conoscere, l’immersione nel lavoro, il desiderio di riscattare le mortificazioni, la necessità di fuggire, la paura della morte. E il carattere malmostoso, la consapevolezza di sé e dell’eccezionalità del proprio ruolo – una cameriera che gli domanda se fosse stanco fa scattare l’indiretto libero: «Aveva una pallida idea, lei, del significato di quella parola? Pensava di essere stanca, la sera, soltanto perché aveva lavato un po’ di tazze e di piatti e perché era stata in piedi tutto il giorno». A questi tratti aspri, irritanti, va però aggiunta, sull’altro piatto della bilancia, la non ancora perduta capacità di provare tenerezza, commozione, vergogna. Senza che questo crei mai equilibrio, piuttosto martirio interiore, varco contraddittorio, amplificazione della disarmonia.
Per anni Maugin non si è piegato al riposo, non si è fatto da parte, ha delegato di rado e di malavoglia. E continua a obbedire, anche nella vita privata, all’immagine che di lui hanno gli spettatori. D’altro canto è un attore magnifico: in procinto di interpretare un invisibile uomo qualunque, «prima ancora che ricorresse al trucco, il suo volto da imperatore romano sembrava già farsi meno spigoloso; i lineamenti si addolcivano, diventavano più molli e sfuggenti, l’espressione acquisiva di colpo un che di banale, di insignificante, si tingeva di un misto di speranza e diffidenza, e forse anche di un vago barlume di bontà».

Attrazione e repulsione per il buio
Dietro le apparenze, tuttavia, prova uno sfinimento irrevocabile: è «stanco da morire. Stanco di essere un uomo. Stanco di reggersi in piedi» e di farsi carico d’individui ottusi come l’anonimo impiegato di cui è padre naturale. Il romanzo, infatti, si apre sulla percezione esatta, che è immediato presagio, di un buio inconsueto, non immateriale ma «palpabile», analogo a quello «di certi incubi della sua infanzia, un buio minaccioso, che a volte di notte lo assaliva a ondate come a volerlo soffocare».
Malgrado gli scongiuri ripetuti da Maugin fino all’ultimo, l’antinomia più lacerante, mai detta chiaramente nello svolgersi del romanzo, sembra quella fra attrazione e repulsione per la «nebbia molle e avvolgente» di cui era costituito il buio sperimentato nell’incipit, smussato dalla singolare luminescenza del fluoroscopio, appena prima di ricevere la diagnosi del cardiologo.
Nella struttura coesa, quanto affollata, del romanzo – nel teatro dei ricordi e del presente di Maugin premono innumerevoli altre figure – le due parti che lo costituiscono sono segnate da due speculari fratture. La prima, nelle strade notturne e nelle scene di Parigi, è la visita medica, la seconda, nel sole abbagliante di Antibes, una piccola, banalissima ferita a un piede. Nel fluire continuo eppure spezzato da un montaggio sapiente e radicale di brevi flashback d’età diverse, si ricostruisce sia la vita di Maugin – la camera d’infanzia che s’allagava, le bastonate prese, «più di quante meritasse, e parecchie anche a tradimento», le esibizioni in caffè-concerto di terz’ordine, e le tre mogli, il successo e la rivincita dei trentadue bauli di vestaglie, la corrispondenza esistenziale emblematica (e un po’ didascalica) di un figlio suo riconosciuto da un altro e, trent’anni dopo, della figlia di un altro riconosciuta da lui –, sia i diversissimi, divaricati strati sociali che gli ruotano intorno. L’attenzione di Maugin non si offusca mai, è un indagatore, quasi fosse mosso, anche lui, da quel desiderio di vedere «l’uomo nudo» che Simenon aveva confidato a Francis Lacassin: «tutti i miei romanzi, tutta la mia vita sono stati solo una ricerca dell’uomo nudo».
Pencola sull’abisso, Maugin, curioso e affascinato, stanco o nauseato come quando dalla barca contempla i pesci nella vegetazione che ondeggia, quasi «mucche al pascolo». La ricchezza di questo romanzo, oltre che nella costruzione serrata e nel vertiginoso capitolo conclusivo, è nell’eleganza delle osservazioni psicologiche, e nella puntualità impressiva, sbalestrante, delle registrazioni sensoriali. È certo un libro in cui Simenon ha investito letterariamente più del solito: più variabili i chiaroscuri e aggressivi i contrasti, più numerose e inventive le similitudini, più scopertamente cólti alcuni rimandi – una poltrona che sembra «uscita da una tela di Velázquez», una famiglia intorno al tavolo con «i volti illuminati come in un quadro di Rembrandt» –, ma è soprattutto un libro che molto acutamente scopre il suo autore, e che sa farlo con un pathos da scena anche quando tratteggia momenti di noia, e con una limpidezza che nello stordimento del lavoro, nell’affanno, cerca la meta insondabile e vera, l’indicibile.