Gli occhi di Marie non sono allineati, quello storto punta troppo all’esterno, e tuttavia il suo sguardo è tanto preciso quanto furtivo e scrutatore. Marie è gracile, bruttina e strabica; ha un’amica bellissima, naturalmente, Sylvie, che lei a un tratto prende a osservare di sottecchi, sospettando che incontri qualcuno. Marie qui louche è senz’altro Marie la strabica, che Adelphi propone nella sua riedizione dell’opera completa di Georges Simenon («Biblioteca», traduzione di Laura Frausin Guarino, pp. 181, € 18,00), ma è anche Marie che guarda di sguincio, che sbircia, o che a volte fissa con insistenza con le sue pupille nerissime. Il romanzo è imbrigliato, saldamente tenuto dal frequente indiretto libero, che espone per lo più riflessioni e interrogativi di Sylvie, e dalla varietà di occhiate – e di intuizioni – di Marie. Due vie di conoscenza: pensiero e occhi, per strabici che siano. Ove strabismo, però, significa anche sguardo non usuale sul mondo e sulla moralità dell’amica. Se un tempo, quando Sylvie si spogliava, Marie «non faceva caso al suo corpo», e si limitava a dire «Che fortuna avere un seno così bello!», quando qualcosa non torna, quando coglie la lascivia del padrone o il gelido fascino di un altero pensionante che vive «come in uno splendido isolamento», Marie si mette a scrutare: «sembrava aspettare ogni sera il momento in cui Sylvie si sarebbe spogliata, e i suoi occhietti indagatori cercavano fin nei recessi del corpo dell’amica qualcosa come un segno, che osservava arrossendo».
La sfida di Simenon, in questo romanzo scritto nel 1951, è tendere il contrasto tra due corpi non comparabili, ineguali e discordi, senza cadere nella prevedibilità. Una ha un seno magnifico, che ragazzi poveri e minorati al pari di uomini ricchi e brillanti desiderano toccare; l’altra è una «ragazza piatta, a cui si contavano le costole e che al posto dei seni aveva due sacchetti flosci».
Benché la fisiognomica abbia le sue conseguenze, e il determinismo segua leggi impietose – ogni corpo agisce come può: una farà la mantenuta, l’altra servirà nelle trattorie –, la dicotomia non ha campiture severe, piuttosto è complicata da sfumature e sfaccettature inconsuete. E il rapporto tra chi vince e chi perde, qui, non solo è impredicibile, ma è lievemente sfuggente, ambiguo. Se si vuole, è un bilancio sempre provvisorio, e in più un vincolo caparbio, quasi asfittico.
Sono due ragazze di provincia; andavano a scuola insieme e sono entrambe volitive, ciascuna a suo modo. E ciascuna ha le sue paure: Marie del mondo, Sylvie della povertà. Arrivate a Parigi, una conserva con la madre un legame almeno epistolare, e riceve ogni giorno una lettera vergata a matita – traccia effimera, umile e insicura –, l’altra, «la Superba», come la chiamavano, atterrita dalla miseria di famiglia, non va al funerale del padre e si fa dimenticare con disonore. Eppure, in filigrana, al di là delle diverse occasioni biografiche, le due amiche hanno una simile forza di carattere. E una simile inclinazione al distacco e alla solitudine, per quanto siano tenacemente unite. Procedono per strade che paiono divergenti, al più parallele, e che invece finiscono per convergere anche dopo una separazione ventennale.
Come spesso avviene nei romanzi di Simenon, che al mestiere non rinuncia mai, non è facile, qui, dirimere tra polarità positiva e negativa. Queste amiche non somigliano ai turbati ma più nitidi fratelli di un romanzo giocato sulla duplicità, come Il fondo della bottiglia (Adelphi 2018). Qui non c’è tragedia biblica, né tragedia tout court, se si eccettua quella un po’ stantia della provincia che vuole inurbarsi, delle ragazze con aspirazioni di ricchezza, o quella, cupa, dei caduti nelle due guerre mondiali, morti appena accennati e tuttavia presenti. Il contesto sociale, anzi, è parte basilare del romanzo. Gli stereotipi simenoniani, ricorrenti in tutta la sua scrittura, «alimentare» e non, hanno particolare vividezza e riverberano condizioni esistenziali e stati d’animo fino a farne dati oggettivi. Così il bancone rivestito di stagno, la botola che porta nella cantina dei vini e le tendine a quadretti rossi sui vetri della cucina nelle Caves de Bourgogne dove serve Marie. Così le facciate di rue Pichat e di avenue Foch che sono «di un grigio spento» la notte in cui Sylvie attende di sapere se e quando morirà il suo vecchio amante, lei «sul marciapiede, come una mendicante, sia pur con la pelliccia di visone sulle spalle», intenta al palazzo che forse sarà suo, col portone chiodato e l’aspetto di un castello falso e greve, da «scenografia teatrale».
Languore, «nostalgia di un mondo impossibile», e poi improvviso e straordinario concerto di migliaia di uccelli all’alba. Sylvie, «fredda come un luccio», aveva «accettato tutto. Tutto quello che era necessario. Senza storcere il naso». Quando infine è stanca morta, svuotata e inerte, a compiere il destino che da bambina giocava a immaginare per sé e per l’amica potranno essere solo gli occhietti neri di Marie, il suo pragmatismo in tralice, e il suo acume istintivo, il suo sordo attaccamento.