Nella tarda primavera del 1961, durante uno dei molti match con giornalisti incalzanti o interlocutori curiosi, Pier Paolo Pasolini rispose in maniera sorprendente a una domanda postagli da Guido Aristarco sui rapporti fra cinema e letteratura: «Le dico subito che per me i narratori degli ultimi vent’anni non sono né De Sica né Visconti . Lei e i suoi testi si dimenticano di Gadda, di Moravia, della Morante, di Bassani, di Calvino, di Cassola, di Silvio D’Arzo, di Tomasi di Lampedusa: per scrivere i primi nomi che verrebbero in mente a chiunque».
A considerare la galleria di poeti laureati allestita da Pasolini, stupisce imbattersi in Silvio D’Arzo, al secolo Ezio Comparoni, morto nel gennaio del 1952 nella città natale di Reggio Emilia appena varcata la soglia dei trenta, autore sul cui conto potevano allora accreditarsi una manciata di titoli, dalle prove dei primi anni quaranta (innanzitutto All’insegna del Buon Corsiero) agli esigui risultati del decennio successivo, fra tutti il postumo Casa d’altri stampato con pochi mesi di scarto dalla sua scomparsa.
Tanto più che, seguendo fedelmente la replica del padre di Ragazzi di vita, quest’inclusione si sarebbe caratterizzata per la naturalezza della scelta, godendo della necessità di un giudizio consolidato nell’opinione universale dei lettori, adusi all’esuberante produzione del secondo dopoguerra.
L’attuale riproposta dei saggi letterari concepiti da D’Arzo nell’intervallo conciso che allontanò la sua fine dalla conclusione del conflitto mondiale (Contea inglese, Corsiero editore, pp. 212, euro 18,50) aiuta a elucidare anche un simile parere: meglio di qualsiasi altra fatica – specialmente se la si accompagna col ricorso all’epistolario professionale e intimo, pubblicato nel 2004 per opera di Alberto Sebastiani – la raccolta concorre infatti a chiarire l’universo di relazioni che, dalla retrovia di un’esistenza nella Bassa, contraddistinse la vita dell’autore, arrivando a proiettarne la figura su una ribalta nazionale.
Gli scritti – oggi commentati da Andrea Casoli – vennero pubblicati in riviste di una qualche risonanza: fatta eccezione per quelli resi noti dopo il ’52 o apparsi su fogli locali, essi furono ospitati in pubblicazioni del calibro de «Il Contemporaneo» (creatura del parmigiano Ugo Guandalini) o di «Paragone», sulle cui pagine D’Arzo fu accettato per sollecitazione di Attilio Bertolucci. Un simile contesto lo reinserisce in quell’«Officina parmigiana» – la formula è di Pasolini – grazie alla quale lo scrittore entrò in contatto col mondo fiorentino dei Longhi, consolidando una presenza toscana che già si era stretta coi favori di Piero Calamandrei (Comparoni partecipò alla rivista «Il Ponte», da questi fondata); e specialmente il patrocinio di Bertolucci – col quale esiste anche una corrispondenza diretta, febbrile come quelle intessute da D’Arzo – è eloquente nel senso della reputazione acquistata dall’autore in un’eletta cerchia di colleghi, nell’affermarsi di una ‘fortuna’ che meriterebbe d’essere ancora indagata.
Proprio le sedi che approvarono i contributi, assieme alla cronologia piuttosto serrata lungo la quale essi vennero composti (e quasi sempre firmati col più celebre fra gli pseudonimi dello scrittore), garantisce al corpus un amalgama che trascende dall’occasionalità di alcuni interventi. Se il centro è chiaramente occupato dalla letteratura inglese e americana (in accordo con un gusto all’epoca diffuso), non mancano le divagazioni verso la Francia (addirittura Villon, «buon compagno»); così come è spesso presente sullo sfondo la narrativa russa, nella personalità giganteggiante di Dostoevskij, quasi una cedimento d’antan. Certi articoli furono prodotti su commissione (è il caso del pezzo più ampio consacrato a Hemingway, richiesto da «Paragone», nel quale si avverte una qualche distanza dalla materia, estranea alle affettuose consuetudini dello sguardo critico del Comparoni); altri reagirono al calendario di ricorrenze e anniversari (ad esempio quello sull’autore di Bel-Ami, il Maupassant avversato dal coevo neorealismo).
D’altronde già D’Arzo aveva progettato un’uscita destinata a riunire i propri pezzi giornalistici, arrivando perfino a formulare il titolo poi passato alle successive, moderne edizioni (a partire da quella dell’87 messa a punto per Sellerio da Eraldo Affinati). Poteva così scrivere nell’ottobre del ’46 a Vallecchi, un interlocutore familiare, di avere «quasi ultimato un libro di saggi» dal titolo di Contea inglese comprendente autori «come Conrad, Stevenson, Kipling , un breve studio sul Polonio di Shakespeare, uno sulla poesia sepolcrale inglese (da Piccola città a Spoon River)». La puntuale coincidenza di un simile indice con i temi contenuti nel volume curato da Casoli è una testimonianza dell’inesausta e metodica progettualità che – fra desiderata, revisioni, ripensamenti – qualificò l’operare dello scrittore, nell’arco della sua fugace esistenza, ponendosi il messaggio a Vallecchi in netto anticipo rispetto all’effettiva redazione della maggior parte degli interventi vergati fino al 1951; nel contempo però tale preveggente documento apre al problema dell’organizzazione che lo stesso D’Arzo avrebbe previsto per il libro. In assenza di informazioni precise, Affinati scelse una scansione che cercasse di coniugare la cronologia degli argomenti con quella (non sempre sicura) di composizione delle singole note; Casoli – coerentemente col sottotitolo preposto all’opera («Autobiografia dello scrittore da lettore») – sembra invece aver optato per un’architettura «sentimentale», rispettosa degli echi interni, oltre che dei rimandi ossessivi a nomi e opere, veri e propri poltergeist dell’immaginario darziano; e in questo si differenzia ugualmente dallo schema orchestrato per l’opera omnia del letterato, impressa nel 2003. La scaletta predisposta per Corsiero non tiene infatti conto del succedersi di ciascuna collaborazione; piuttosto, con l’aggiunta di materiali come la «Prefazione a Nostro lunedì» o di curiosità sul tipo di «Una storia così» (utili a illuminare l’attività critica del Comparoni), si struttura nella forma di una ‘biblioteca’ dell’autore, in cui la stessa sistemazione dei volumi sui ripiani si trovi a offrire una chiave interpretativa, segreta ed eloquente.
Si tratta di una pista più esile, non esente da forzature (perché chiudere con Villon?) e passibile di una qualche osservazione: tuttavia la cura filologica con cui sono presentati i pezzi contribuisce a rendere l’indice il più delle volte suggestivo, gli accostamenti efficaci. Riuscitissima è la concatenazione dei contributi su Stevenson, Kipling, Conrad e James che sfaccettano, in una sequenza coerente, luoghi topici della riflessione di D’Arzo come il viaggio, l’esilio, l’isola, la casa col principiare dalla parabola avventurosa dell’Isola del tesoro per arrivare alla statica salottiera dell’Americano, ponendone in luce coincidenze e riverberi.
È al proposito penetrante l’imbeccata di Casoli, laddove confronta Scrittori inglesi e americani pubblicati nel 1935 da Emilio Cecchi (il quale, nel ’42, avrebbe anche prefato la seconda edizione degli Americana di Elio Vittorini) con la Contea, mettendo quest’ultima in rapporto con il suo modello dichiarato (l’indizio è offerto dallo stesso carteggio di Comparoni): «non sono due libri da leggersi in parallelo e nemmeno da conservare nel medesimo scaffale della biblioteca. Il primo raccoglie i saggi scritti da uno dei massimi anglisti del Novecento italiano in base alle più svariate sollecitazioni e contingenze, dalla conferenza accademica alla recensione delle novità librarie; il secondo aspira a un carattere molto più personale, limitato agli autori prediletti o a personaggi e temi selezionati in base ad affinità e simpatia. Il primo mira all’enciclopedia e alla storia, il secondo al diario di lettura e alla confessione».