Durante i 18 lunghissimi mesi del rapimento ci sarebbero stati almeno due momenti risultati poi decisivi per la liberazione di Silvia Romano. Il primo risale allo scorso mese di luglio quando, stando a quanto scrivono i media keniani, a Roma si svolge un vertice tra investigatori italiani e provenienti da Nairobi. All’incontro avrebbero preso parte il procuratore generale kenyano Noordin Haji e quello per le indagini criminali George Kinoti, insieme al procuratore capo della capitale Giovanni Salvi e al pubblico ministero Sergio Colaiocco, titolare dell’inchiesta sul sequestro della giovane cooperante italiana. «L’incontro – scrive il Daily Nation – concordò che una squadra speciale di polizia dell’antiterrorismo da Roma doveva venire in Kenya per aiutare nelle indagini. E’ stata questa squadra che ha scoperto che Romano era stata portata in Somalia e furono avviati immediatamente sforzi per contattare i suoi rapitori». Un incontro che sarebbe servito anche a rimediare ai ritardi con cui, secondo i quotidiano, le autorità di Nairobi sarebbero intervenute nei momenti successivi al rapimento.

Ma è alla fine dell’anno scorso che ci sarebbe stato l’intervento risultato poi fondamentale. Chiamati dai colleghi italiani dell’Aise, a dicembre cominciano infatti a collaborare nelle indagini anche i servizi turchi del Mit, una collaborazione di estrema importanza visto che proprio Ankara addestra gli uomini dei servizi somali. Grazie a questi contatti sarebbe stato quindi possibile capire dove era tenuta prigioniera Silvia e avviare la trattativa per la sua liberazione.
E proprio sulle ultime fasi del sequestro ieri si è scatenata una specie di guerra mediatica tra servizi italiani e turchi, ognuno dei quali impegnato a rivendicare la liberazione della ragazza.

La prima a muoversi è stata Ankara rendendo pubblica una fotografia scattata nei momenti immediatamente successivi alla liberazione di Silvia Romano e nella quale la cooperante indossa un giubbotto con la mezzaluna. Una mossa che a Roma viene letta come una firma sull’esito positivo della vicenda e interpretato come una prevaricazione. Tanto da suscitare la reazione della nostra intelligence che non solo rivendica la liberazione della ragazza, ma attribuisce lo stesso giubbetto della fotografia alla dotazione militare italiana.

Restano da capire le motivazioni da tanto impegno, che in molti attribuiscono alla necessità del presidente turco Recep Tayyip Erdogan di ottenere un riconoscimento internazionale anche in relazione al ruolo che Ankara sta svolgendo in Libia in difesa del governo Serraj.
Ieri Silvia è tornata a casa a Milano, accolta da un lungo applaudo della gente del suo quartiere. Su quanto le è accaduto, sul riscatto che sarebbe stato pagato (si parla di tre milioni di dollari ai terroristi di al Shabaah) e sulla sua conversione all’islam non potevano ovviamente mancare polemiche.

«I soldi del riscatto sarebbero stati incassati da questa organizzazione terroristica, Al-Shabaab, che coi suoi attentati ha ucciso centinaia di persone», ha detto il leader della lega Matteo Salvini che non ha risparmiato critiche al governo: «Io al ritorno avrei tenuto un atteggiamento più sobrio da parte delle istituzioni, un profilo più basso. Penso che un ritorno più riservato avrebbe evitato pubblicità gratuita a livello mondiale a questi infami che nel nome della religione hanno ucciso centinaia di persone». Sulla conversione di Silvia all’islam è invece intervenuto il cardinale Gualtiero Bassetti: «Tutti, in questo momento, la sentiamo nostra figlia» è stato il commento del presidente della Cei: «È una nostra figlia che ha corso dei pericoli enormi, che ha avuto coraggio e forza d’animo».