La figlia femmina (Fazi editore, pp. 192, euro 10) è il libro d’esordio di Anna Giurickovic Dato, giovane scrittrice catanese che si cimenta con la forma lunga del romanzo, raccontando la storia di una famiglia frantumata dalla pedofilia del padre sulla figlia bambina.
Più che la messa in scena dell’orrore attuato dall’orco, però, il libro è la narrazione dal punto di vista della madre della sua stessa assenza. Questo vuoto di sé che Silvia dipinge è raccontato nel romanzo attraverso un’alternanza regolare tra passato e presente. In entrambi i contesti temporali, la madre di Maria assiste senza vedere o osserva immobile la figlia che occupa il suo posto.

AI TEMPI DELLA VITA in Marocco quando vivevano tutti insieme a Rabat, la bambina era oggetto del desiderio del padre suo malgrado, mentre nelle scene che raccontano il presente, nella casa a Roma dove le due donne si sono trasferite da sole, la figlia ormai tredicenne impone alla madre di vedere ciò che prima non ha saputo scorgere. In una domenica primaverile di sole e di pioggia, complice l’alcol e la sua bellezza irresistibile, descritta con sapienza e vividezza dall’autrice che crea l’adolescente perfetta, Maria seduce il nuovo compagno di sua madre. Di fronte all’evidenza vergognosa e inaccettabile dei fatti, Silvia decide di assopirsi, con gli occhi chiusi per un tempo indefinibile può ancora dirsi che forse non sta accadendo. Quando, invece, apre gli occhi e di fronte a lei il quadro si completa, il vuoto di volontà della madre si concretizza nel suo immobilismo: Silvia mormora ai due di smetterla, ma «sono io stessa il silenzio» e ancora: «ho paura di scoprire che davvero non conto niente». L’estraniamento che la madre ha messo in atto durante l’infanzia di Maria, non accorgendosi che il marito amatissimo abusava della sua bambina, è chiaramente rappresentato con un espediente interessante che la scrittrice sembra usare per non lasciarci dubbi su dove ricada la colpa. Il romanzo è raccontato per la maggior parte in prima persona dalla madre, tranne che in alcuni momenti, in cui compare nel testo un punto di vista narrativo esterno: nell’incipit che descrive l’armonia apparente della vita di Silvia, Giorgio e Maria a Rabat e in altre due scene.

LA PRIMA è quando la nonna Adele, preoccupata, si interessa della salute psichica della nipote: «la bambina come sta? – chiede a Silvia». Lei risponde minimizzando gli incubi, le urla, i disegni suggeriti «dal diavolo» che Maria dirà alla madre di avere nel petto, quando le confesserà le violenze. Questa fuga della donna dalla consapevolezza, rappresentata dalla scrittrice attraverso il passaggio esso stesso estraniante alla terza persona, si ripropone quando la madre viene chiamata dalla scuola di Maria per un colloquio: «Silvia si alza nervosamente dalla sedia, la psicologa si avvicina a Silvia». Il romanzo interroga il nodo incandescente del ruolo della madre nelle violenze familiari maschili, attraverso un gioco di specchi, di sguardi mancati. Lo fa dolorosamente e con profondità.