Musicista, compositore, cantante, scrittore, pedagogo, Silverio Pessoa viene alla ribalta con la grande onda del manguebit, che dal profondo Nordeste del Brasile viaggerà, a metà degli anni 90, fino alla terra dei gringos. Con un manifesto audace e visionario, Caranguejos com cérebro (granchi con cervello), all’inizio degli anni Novanta mangueboys e manguegirls si propongono di scioccare Recife, la capitale del Pernambuco, «prima che muoia di infarto». Fra le cose che amano, la teoria del caos, i conflitti etnici e Bezerra da Silva, sambista del morro di fama malandrina. L’immagine della loro rivoluzione, un’antenna parabolica piantata nel fango che fa crescere i mango. Lo shock, per la musica brasiliana tutta, impantanata nella deriva commerciale dell’axé baiano, sarà potente, probabilmente il movimento culturale più interessante di questo passaggio di secolo. In questo panorama, Silverio, nato a Carpina, Zona da Mata, è forse quello che più di tutti ha tenuto forte il legame con le tradizioni, facendo dello scambio interculturale e dell’ibridazione l’asse portante della sua estetica, che si tratti di proporre l’introduzione dello studio del forrò come materia curriculare nelle scuole pubbliche, o della collaborazione con i gruppi occitani francesi ma anche italiani, o del più recente studio delle musiche dei preti cattolici o evangelici, che in terra Brasilis riempiono gli stadi, a passaggio di secolo compiuto. Nel suo carniere, 8 dischi da solista, l’ultimo, Cabeça feita – Silverio Pessoa canta Jackson do Pandeiro, uscito da qualche settimana, è il secondo che Pessoa dedica al personaggio più eclettico e irriverente della musica nordestina, che negli anni 60 conquistò orecchie, piedi e cuori del Brasile intero con la musica dei cafoni. Noi l’abbiamo incontrato di passaggio, un passaggio italiano che includeva la visita alla Sindone, e deplorevolmente nessun concerto.

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«Io ho cominciato – racconta l’artista – a fare musica lavorando la tradizione, suonando nei circuiti di forrò, la musica del Nordeste, per poi allontanarmene un po’ alla volta. Dagli anni ’90, in Brasile, si è creato un movimento di rilettura e riconfigurazione della modernità e della contemporaneità, del quale faccio parte, con Chico Science, Naçao Zumbi, Lenine, Alceu Valença. Cabeça feita è un ritorno alla musica tradizionale, un tentativo di risignificazione dell’universo creativo di Jackson do Pandeiro, non una rilettura. Ho messo 4 musicisti in studio e li ho registrati dal vivo, con microfoni a valvole degli anni ’60, incidendo su quattro canali. Un disco senza chitarra elettrica, batteria, tastiere, ci sono solo viola de dez (chitarra a dieci corde, del sertao pernambucano, ndr), accordeon, percussioni, zabumba (tamburo basso), e basso elettrico registrato acustico. Il forrò, dalle origini negli anni ’20, non usava il basso perché troppo caro per una musica di poveri, si suonava con un piccolo accordeon a otto bassi. C’è una linea di pensiero radicale secondo cui nel forrò non c’è niente di elettrico, ma Jackson do Pandeiro ci ha messo tutto: chitarre, tastiere, fiati, è stato come Frank Zappa, un grande innovatore. È una musica molto complicata da suonare, configurativa: la zabumba esegue una figura, lo stesso la viola, e l’accordeon. Ha la stessa difficoltà dell’improvvisazione jazzistica: non c’è improvvisazione armonica, ma configurazione, non è da tutti. La generazione degli anni 90 ha riscoperto, riletto, reinterpretato, attualizzato le musiche di tradizione, riportandole al centro dell’ascolto. In questo disco ho voluto riavvicinarmi all’originale: una nuova generazione ascolterà questa musica come suonava, e la troverà moderna, non una cosa nostalgica. Moderna, come realmente è.
Qual è la tradizione alla quale fai riferimento? 

Io sono della Zona da Mata Norte del Pernambuco, un’area adiacente a quella costiera, differente dal sertao (la zona semidesertica interna), e dall’agreste (la zona di transizione fra l’area costiera e il sertao). Un territorio umido, ricco di foresta atlantica, che i portoghesi scoprirono adattissimo per coltivare la canna da zucchero portata dall’India. Con l’espulsione degli europei – gli olandesi nel 17° secolo, poi i portoghesi cacciati dalle insurrezioni dei nativi – dal litorale, i molti che restarono si spinsero all’interno, stabilendosi nella Zona da Mata, sposando donne indie o africane e coltivando lo zucchero. Fu un’epoca molto feconda sotto il profilo economico per tutto il Nordeste. I portoghesi diedero in concessione molte terre ai signori, lo sfruttamento del lavoro era fortissimo, un processo economico massacrante, ma intorno a quest’area si formò quella che io chiamo la cultura della civilizzazione della canna da zucchero: una musica specifica, come la culinaria, la maniera di vestire e il modo di parlare. Una cultura che esiste in forma residuale ancora oggi, malgrado la forte urbanizzazione: ciranda, cavalo marinho, maracatu, bumba-meu-boi e forrò ci sono ancora.

Il Nordeste è terra di grandi tradizioni spirituali e religiose e di predicatori messianici

Nel 1600 arrivarono le missioni gesuite, ma già nel 1630 con l’arrivo dei protestanti olandesi furono bruciate molte chiese e uccisi molti cattolici. I gesuiti resistettero, e l’eredità cattolica della Zona da Mata risale alle missioni che arrivarono per catechizzare indios e africani. Un cattolicesimo di tradizione missionaria, popolare, fatto di novene, processioni, meno ornamentale, meno istituzionale, con le novene recitate in casa, guidate dagli anziani, Radio Maria accesa. Le fogueiras (i riti del candomblè che accendono fuochi per celebrare gli orixas, diffusissimi in tutto il Nordeste ), i brinquedos (sono definiti brinquedo tutti i riti e le rappresentazioni di sincretismo religioso), hanno un’origine portoghese. Ognuna ha una musica e un linguaggio particolare.

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Ci spieghi cos’è un maracatu?

Il maracatu è di origine africana, ce ne sono tre tipi, rappresentano l’incoronazione di un re e di una regina di una Naçao (fin dai primi tempi della colonizzazione portoghese e dell’arrivo degli schiavi dall’Africa, i cronisti presero a chiamare gli infedeli “naçao”, denominazione che finì per essere acquisita dagli africani per definire i propri gruppi di appartenenza. Le naçoes oggi esistenti discendono da organizzazioni di questo tipo). Il maracatu di baque virado è di ambientazione urbana, raro nella Zona da Mata, dove è più diffuso il maracatu di baque solto, che si differenzia dal virado nella dinamica, nella battuta, nel ritmo, per questo si chiama «solto», sciolto, libero: è più diretto, più schietto. Il terzo è il cavalo-marinho, che è una vera rappresentazione teatrale, con personaggi come il Mestre Ambrosio, le Calunga, le dame di corte, la regina, il re, i pagliacci… inizia di mattina, e va avanti tutto il giorno, 14-15 ore.

Fai spesso riferimento a Chico Science, al movimento manguebit: 20 anni dopo esiste ancora quella scena?

Sì, si è estesa, ampliata. All’inizio è stato un movimento etico più che di protesta, in Brasile c’era, e c’è ancora, molta discriminazione verso il Nordeste. Il manguebit , diffondendosi in tutto il Paese, ha prodotto una fortissima affermazione di identità e di autostima, e una grande trasformazione economica nel campo della musica. Si è sviluppata una catena produttiva, la professionalizzazione dei tecnici, degli studi di registrazione, degli spettacoli. Oggi ci sono le condizioni perché emerga, come succede, un gruppo nuovo a settimana. Io appartengo alla seconda generazione del mangue, e ho perduto la paura di diventare professionista grazie a Chico Science, che ha risvegliato in noi l’orgoglio di essere nordestini, di fare le cose, a partire dalle nostre tradizioni. Lui non era ortodosso, cercava il dialogo con la musica di Fela Kuti, col rock, con Afrika Bambaataa… Non ci sono gruppi di musica mangue, all’epoca c’era un sacco di musica, ma il mangue lo suonavano solo Chico Science e Mundo Livre S/A. Era una questione di autostima, di mercato, di credere nella musica del Nordeste. Allo stesso modo ha funzionato per cinema, moda, letteratura, gastronomia, che fino ad allora non trovavano un loro spazio. Per l’intreccio di linguaggi e forme espressive diversi, si dice che è stata una movimentazione, più che un movimento. Molti cineasti cominciarono a lavorare secondo quest’estetica, con storie di eroi come Lampiao, il re del cangaço, o personaggi come Luiz Gonzaga. Penso, ad esempio, a Paulo Caldas e Lirio Ferreira.

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La collaborazione con i gruppi di musica occitana 

La prima volta che andai in Francia per suonare, avevo appena ascoltato un disco di Lenine, dove due improvvisatori suonavano coco, in francese. Fui molto sorpreso: il coco è una musica pernambucana, c’è dentro il canto degli schiavi. Erano i Fabulous Trobadors. Li cercai, attraverso loro incontrai altri gruppi, e scoprii il movimento occitanista. Le somiglianze con il Nordeste sono tantissime, a partire dalla religiosità: nella Francia tanto laica, il Sud è pieno di pellegrinaggi, sorgenti miracolose, c’è stata l’eresia catara. Poi, una folta vegetazione, molta agricoltura, una ricca culinaria, e, naturalmente, la musica, in particolare l’utilizzo dell’accordeon, uno strumento tipico francese e centrale nel forrò. Da questo incontro è nato un progetto che ha prodotto due dischi, Collectiu, con 12 gruppi occitani, e Forrocitania, che è il risultato della mia residenza con il gruppo La Talvera. Nessuno dei gruppi con cui ho collaborato fa musica tradizionale fissa, statica, proprio come in Pernambuco, vanno oltre la riproposizione della tradizione.