Fernando Pessoa, nel Libro dell’inquietudine, lo chiamava «dentro de mim»: il dentro-di-me. Bernardo Soares, affacciato alla finestra della sua interiorità, trascorre la vita intera, in silenzio, a osservare il di-fuori e il di-dentro. Come ha scritto Antonio Tabucchi, «anche quel “dentro” è un luogo estraneo e ignoto al suo abitatore, un “dentro” in affitto, la camera di un albergo che Soares divide con altri se stesso che egli non conosce».

Quanti sé stessi abitano il di-dentro di ciascuno di noi? E come dialogare con tutti, nel lungo cammino del conosci te stesso che coincide con l’esistenza? Pessoa inventava i suoi eteronimi e vi si specchiava: «Mi sono creato eco e abisso, pensando. Mi sono moltiplicato approfondendomi». Un altro grande visionario moderno dello sconfinamento fra il di-dentro e il di-fuori, Franz Kafka, negli Otto quaderni in ottavo delineava il progressivo ridursi dell’essere al puro sguardo, non più «interiore» né «esteriore», ma bilanciato sul loro confine: «Tre cose: Vedere se stessi come una cosa estranea, dimenticare ciò che si è visto, conservare lo sguardo».

Di questo «dialogo tra il limite e l’oltre, tra il visibile e il nascosto» che è la conoscenza, in primo luogo la conoscenza di sé e delle «costellazioni di pensieri» che illuminano gli spazi interiori come quelle celesti punteggiano il cielo notturno, Antonio Prete disegna la mappa e il planetario in un libro, Il cielo nascosto Grammatica dell’interiorità (Bollati Boringhieri, pp. 274, € 16,00) tessuto, come tutti i suoi, di prosa alta e di maestria ermeneutica. Da Marco Aurelio a Baudelaire, da Agostino a Leopardi, da Dante a Caproni, dai trovatori provenzali a Flaubert, da Montaigne a Joyce, le pagine più profonde della nostra letteratura e le vette dell’arte figurativa (Velázquez, Rembrandt, Degas, Van Gogh, Giacometti, Bacon) sono auscultate con orecchio sensibilissimo, in una quête culturale che è anche un armonioso ricercare «del limite, dell’orizzonte».

È la figura kantiana dei due cieli, uno visibile e uno nascosto, a scandire la trama di questa storia dell’interiorità: «Due cieli. Uno abitato da stelle e pianeti e un cielo abitato da pensieri e sentimenti. (…) I due cieli si riflettono uno nell’altro. Si richiamano e implicano».
Il testo più alto di ogni tempo, la Commedia, libro dell’universo, «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra», esprime, per ricorrere a un magnifico verso di Paul Celan, «una parola sorvolata da stelle». E in Leopardi come in Baudelaire «poesia d’amore e cosmologia dialogano tra loro»: «il movimento della luna è in dialogo con il movimento di un pensiero che ospita quel che più non c’è».

Il cielo nascosto è insieme un viatico alla ricognizione degli «interni d’anima» letterari e un manuale di volo nelle altissime profondità della mente, che ha come tema di fondo il pensiero stellare scrutato dalla torre d’osservazione interiore, come nel Pensiero dominante leopardiano, «la più bella poesia d’amore della lingua italiana (…), dove il dire dell’amore è dire della poesia stessa, e il pensiero d’amore è essenza stessa dell’interiorità, del suo respiro». Ma il libro è anche un sillabario iniziatico, poiché ciascun capitolo si chiude con un esercizio spirituale di grammatica dell’interiorità: la lontananza; la solitudine; la quiete, la letizia, la gioia; l’elevazione; l’ascolto, la lettura; l’attenzione, l’attesa; l’esame, il segreto, la tristezza; il ricordo, il sogno; il silenzio; la riflessione, lo stupore.

Tappa di un autentico pensiero poetante (la formula fu ideata dallo stesso Prete per Leopardi), questa grammatica dell’interiorità andrebbe fatta dialogare con le altre opere dell’autore, soprattutto con il Trattato della lontananza (Bollati Boringhieri, 2008): la Cartografia fantastica e le pagine Per una storia del cielo di allora si riverberano nel capitolo odierno sulle Cosmografie interiori; lo scavo nella letteratura che è in primo luogo «lontananza rappresentata come lontananza» si lega alla meditazione attuale sul «tempo del cammino, il tempo della relazione assidua con la lontananza, con le sue parvenze, con i suoi miraggi».
«Anche i poeti fanno esperienza del deserto», là dove risiede «l’origine dell’interrogazione». È qui che Antonio Prete incontra il «suo» Edmond Jabès. D’improvviso la «parola che si rivolge al dolore, (…) parola che riconosce la finitudine come orizzonte corporale» si apre alla figura dell’ospitalità, «crocevia di cammini», e l’«ospitalità del dolore» si trasforma nell’«ospitalità della lingua».

Il felice raccoglimento «nel silenzio di una stanza», l’agostiniano e petrarchesco «ritorno nella propria dimora», sbocciano nell’ulteriorità, nello sguardo che Montaigne lancia sul di fuori attraverso la finestra della sua biblioteca, protetta torre d’avorio, proclamando la fierezza umanistica del «pensare qui» per traguardare l’altrove: «Noi non siamo mai in noi, siamo sempre al di là. Il timore, il desiderio, la speranza ci lanciano verso l’avvenire». Questo slancio verso il futuro è la radice di una familiarità interiore dei poeti e dei pensatori «con la lontananza astrale».

Acuta e minuziosa, l’analisi del «gesto di raccoglimento che si fa scrittura, prende forma di libro», instaura il «dispiegarsi di quella concentrazione»: si apre così «un dialogo con il tempo che più non c’è, (…), con quel che non è visibile, con una lontananza temporale e spaziale che l’immaginazione fa pulsare di una sua vita». Altrettanto acuta la lettura della frase con cui si aprono i quaderni intimi di Baudelaire, «Sull’evaporazione e centralizzazione dell’Io. Tutto consiste in questo», che ritrovo alla lettera proprio nel Libro dell’inquietudine di Pessoa: «Tudo se me evapora». Il movimento di «espansione, divagazione, fuga», e quello di «attenzione, concentrazione, interrogazione», sono «la diastole e la sistole del pensare, del meditare. Ritmo e insieme modo di conoscenza».

La meditazione di Antonio Prete sul limite è il tratto che caratterizza la sua riflessione: farne oggetto di ragionamento significa per lui individuare «il vero limite, che è quello del pensiero»: il pensiero sogna «l’oltrelimite», e così si slancia verso l’ulteriorità, verso l’«infigurabile infinito», dove il pensiero naufraga per risorgere nella conquistata libertà di poter «osservare le cose dall’alto, da lontano, in uno stato di costante elevazione»: «Conosci te stesso, conosci il tuo limite. Ma anche conosci il limite, il limite in quanto tale. Il limite ha una sua risonanza: per questo è sorgente dell’immaginazione. E con l’immaginazione si slargano i confini del visibile. Quel che è oltre il limite si raffigura, si fa figura. Prende respiro e ritmo. Quel che è assente prende presenza. L’interiorità è il teatro dove si spalancano mondi, dove ogni limite confina con quel che è di là dal limite».

Questo libro è una guida terapeutica all’immaginazione come ginnastica del pensiero che attraverso il costante interrogarsi impara a spostare il proprio sguardo sulle cose in una lontananza capace di illuminare il di dentro e il di fuori con luce stellare.