Non è mai troppo tardi, recita un vecchio ma sempre calzante detto popolare. Se le indiscrezione sull’avvio di indagini del Ministero della giustizia Usa e della Federal Trade Commission su Google, Facebook, Amazon e Apple fossero confermate, le inchieste sono le benvenute perché segnale di un clima mutato dentro e fuori la Rete.

Se si arriverà allo «spacchettamento» delle attività dei big della Rete quello che risulterà terremotato sarà il precario e sempre in divenire equilibrio del capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza. Sono diventate una potenza economica e politica a livello globale perché hanno un ciclo integrato che va dalla raccolta di dati individuali, alla loro elaborazione, alla produzione del software idoneo a far questo, partecipando variamente a progetti sull’intelligenza artificiale finanziati dagli Stati Uniti. Farne uno «spezzatino», come viene da più parte richiesto, non può che ridimensionare la loro capacità «politica» di condizionare lo sviluppo e le dinamiche di un settore strategico come è l’high-tech.

Uno dei positivi effetti è dunque il ridimensionamento del loro potere globale. Sono infatti anni che associazioni dei diritti civili, studiosi, esponenti politici accusano queste imprese di violare sistematicamente la privacy e di pratiche monopolistiche nei loro settori. Sotto accusa sono anche come vengono gestiti i rapporti di lavoro.

Google, ad esempio, è sotto sorveglianza mediatica per l’uso indiscriminato di lavoratori precari, che ricevono salari inferiori e hanno un trattamento assicurativo sanitario e pensionistico inesistente rispetto i lavoratori a tempo determinato, come è stato documentato in un commento dell’ex ministro clintoniano del lavoro e economista Robert Reich il 2 giugno pubblicato nell’edizione Usa del Guardian.

Amazon è invece diventata il simbolo di una impresa che si regge su un regime quasi carcerario al quale sono sottoposti i lavoratori. Apple, dal canto suo, non riesce ad uscire dal cono d’ombra delle inchieste sul regime quasi schiavistico di chi lavora nelle imprese cinesi che producono iPhone e iPad. Facebook è infine dipinta più che come un social network come un social devil perché corresponsabile della manipolazione della dialettica politica nei paesi dove opera, come è emerso dallo scandalo di Cambridge Analytica.

Il consenso ha cominciato dunque a sgretolarsi. E non è un caso che le voci dell’avvio delle inchieste siano state riportate dal liberista Wall Street Journal e dal liberal New York Times, a ratificare le critiche bipartisan che ormai sono lanciate ai colossi della Rete. Per ora è certo che la borsa ha pesantemente penalizzato tutte le imprese.

Chi mantiene, per il momento, un basso profilo è Donald Trump. Il presidente Usa non ama Silicon Valley. Ha sempre accusato le imprese high-tech di essere gli occulti grandi elettori dei democratici. Battute buone per i tweet che ossessivamente lancia. La valle del silicio è sempre stata infatti bipartisan nel finanziare candidati repubblicani o democratici.

Tim Cook e Jeff Bezos hanno fatto sì dichiarazioni anatematizzanti verso i repubblicani; l”ex amministratore di Google Erich Schmidt ha collaborato con lo staff di Obama, ma tra le fila di Big G ci sono anche personaggi bizzarri come Ray Kurzweil, il teorico della singolarità che vede un futuro transumanista dove i wasp potranno salvare la civiltà occidentale perché immortali nella loro forma di macchine intelligenti. A Silicon Valley c’è anche Peter Thiel, fondatore di Paypal, capitalista di ventura, esponente estremo dell’anarco-capitalismo che propone comunità rigorosamente refrattarie a qualsiasi contaminazione razziale.

L’elenco degli esponenti di destra, simpatizzanti per il suprematismo bianco potrebbe allungarsi ancora. Silicon Valley è sinonimo di un capitalismo smart ma che si fonda su uno sfruttamento tanto soffocante che continuato nel tempo. Quello che non amano di Donald Trump è la sua pretesa di interferire, in quanto potere politico, con i loro affari.

Al suo slogan «America first», Silicon Valley risponde con «we first». Washington, il Pentagono e la Casa Bianca vanno bene solo se elargiscono dollari attraverso i progetti di ricerca e sviluppo; oppure se tengono fuori dai confini nazionali potenziali competitors, ma niente di più. Il verbo spacciato a Silicon Valley è l’anarco capitalismo, che in questa fase è distante dal populismo arrogante e presuntuoso di Trump, considerato espressione di un capitalismo vecchio, parassitario e genuflesso allo Stato nazione.

L’avvio delle inchieste oltre a cambiare il capitalismo delle piattaforme modificherà quindi anche i rapporti tra Stato e Mercato. Ma sbaglierebbe chi si soffermasse solo al probabile rilancio della figura dello Stato innovatore, obiettivo dei democratici, ma a dare le carte è adesso Donald Trump, il sovrano che decide bizzarramente lo stato d’eccezione in nome della sicurezza nazionale. Lo scontro non finirà certo con le inchieste. La speranza è l’irruzione di un terzo incomodo. Chi lavora dentro queste imprese assieme agli utenti della Rete stanchi di essere espropriati della propria esperienza, ridotta a profili da vendere al mercato.