Presentiamo qui una sintesi di alcune delle testimonianze rese al Tribunale Russell. L’unico cittadino di Gaza dei quattro invitati che è riuscito ad arrivare a Bruxelles è il fotografo Mohammed Omer, perché in possesso di passaporto olandese, agli altri non è stato permesso il transito in Egitto.

Non una parola volava tra il pubblico mentre i testimoni parlavano, ma è stato molto difficile al Presidente della Giuria fermare gli applausi dopo le testimonianze, e nella sala gremita molti lasciavano cadere le lacrime

Eren Efrati, ex sergente dell’esercito israeliano. «Dovete sapere che a ogni soldato viene chiesto di disegnare una linea rossa immaginaria: se viene oltrepassata, si deve sparare». Inizia cosi la sua testimonianza sull’aggressione al quartiere di Shuja’iyya. «La sera del 19 luglio i militari israeliani hanno ricevuto l’ordine di entrare e occupare la zona: non ci sarà resistenza, era stato detto loro. Ma la resistenza è arrivata, e molto potente. Tra le 9 e le 11 pm i soldati sono stati attaccati da un missile che ha ucciso 7 di loro. In un solo giorno 13 soldati delle Golani Brigade sono morti. La pressione in Israele era altissima e quella sera decisero che avrebbero usato la tattica Dahiya: dare a tutti una punizione collettiva. L’ordine era: sparare a qualsiasi cosa si muova». E Salem Shammaly è stato ucciso. «Nelle prime ore del mattino la fanteria è entrata a Shuja’ya, ha messo sabbia alle finestre e piazzato i cecchini. Alle 10:00 un messaggio dall’alto: so che siete confusi, impauriti, ma non abbiate paura, i vostri 13 amici non sono morti invano, vi lasceremo esprimere la vostra frustazione. Alle 12:00 i soldati si preparano per il cessate il fuoco, indetto alle 13:00. Alle 13:30 Salem Shammaly, insieme ad altri palestinesi e un gruppo di solidarietà internazionale, torna tra le macerie per cercare membri della famiglia. Urla i loro nomi. C’è uno sparo. Salem si alza, urla ancora, attraversa con un passo la linea rossa immaginaria – il soldato chiede al superiore se può sparargli – gli viene detto di sì – c’è un altro sparo. Shamali si accascia e muore».
Eren mostra il video dell’assassinio. «Questo massacro accadrà di nuovo, e di nuovo, se nessuno fermerà Israele. Proprio ora Israele ha deciso di stanziare 14 bilioni di shekels nei prossimi anni per le armi: accadrà ancora, e sarà molto peggio. Da ex soldato dico questo: l’insulto che questa gente, che è supposta essere sotto il nostro controllo, ci fa, nell’alzare la testa, è inaccettabile per noi. Questa è la dottrina Dahiya. Nella mente di un soldato israeliano non c’è diritto alla resistenza, al protestare, a manifestare. Coloro che resistono sono terroristi, sono esseri umani illegali».

Max Blumenthal, giornalista americano, prosegue: «Abbiamo trovato tra le macerie di Shuja’iyya una mappa laminata, è la prima volta che viene esposta pubblicamente. È prodotta da una compagnia israeliana ma ha la data americana. Mostra una mappa di Shuja’iyya da attaccare: la linea di vendetta non è immaginaria ma realmente delineata (una linea rossa). In alto sulla destra è il luogo dove Shammaly è stato ucciso. All’estremità sinistra (arancione e nero) è dove Omer Fati è stato ucciso a sangue freddo. È stato chiesto a gruppi di uomini se conoscevano l’ebraico. Coloro che rispondevano di sì sono stati separati dal resto del gruppo ed è stato sparato loro al petto. La famiglia Shammaly è stata gius.tiziata così. La stessa cosa a Rafah. È una filosofia del genocidio, il target esplicito è l’intera popolazione di Gaza. Questo massacro deve essere analizzato all’interno di un secolo di colonialismo. La questione del genocidio va posta in questo contesto, di fronte al tentativo di preservare la purezza etnica dell’ebraicità. Ma la gente a Gaza resiste, con la loro sumoud, la loro resilienza, sono un popolo forte che resiste, e così dobbiamo resistere anche noi».

David Sheen, giornalista indipendente e regista canadese, residente a Dimona, Israele, descrive «l’incitamento al genocidio di cui la società israeliana si sta nutrendo. In ogni suo aspetto, religioso, politico, accademico, civile. Questo incitamento si nasconde in messaggi religiosi e fa tremare perché attraversa radicalmente tutta la società israeliana. Incitamenti al genocidio vengono da figure religiose come Shmuel Eliyahu (Non dare loro riposo, Deut. 7/2), Yitzhak Shapira (in The King’s Torah scrive sotto quale legge è permesso uccidere palestinesi, anche bambini), figure politiche come Shimon Gapso, sindaco di Upper Nazareth (Nazareth alta è una città ebraica, sono un orgoglioso rampollo di una gloriosa dinastia di “razzisti”), Danny Danon, ex Vice ministro della Difesa (secondo lui il più grande problema nello Stato di Israele sono gli arabi di Israele); e Moshe Feiglin, Naftali Bennett, Noam Perel, Ayelet Shaked…».

Più David si inoltra tra le modalità in cui avviene questo incitamento al genocidio, più la sala è attonita.

«Riferimenti ad Amalek, Deut. 25, 19, su chi deve essere soggetto a genocidio, sono stati trovati scritti sui missili dai soldati o selfies postati sul web (“odiare gli arabi non è razzismo, è avere valori”): la società israeliana urla vendetta e Netanyahu ha nutrito questo grido di vendetta. L’uccisione di Mohammad Abu Khdair, a cui è stata fatta bere benzina ed è stato fatto bruciare dall’interno, ne è la più disumana espressione. Ad oggi il 95% della popolazione israeliana ritiene che l’operazione di aggressione a Gaza fosse giustificata. E i target sono i giovani che dissentono o i giornalisti come Gideon Levy, che vengono attaccati quotidianamente e considerati traditori».

Mohammed Omer, giornalista e fotoreporter di Gaza testimonia sulla distruzione di Khuza’a, mostrando le immagini della devastazione, racconta come l’imam sia stato preso, svestito, tenuto come scudo umano, sotto tiro e costretto a chiamare i giovani fuori dalle loro case: «Sono stati presi e portati in prigione, molti di loro sono ancora detenuti, non sappiamo dove»; racconta di come Mohammed Tawfiq Qudeh sia stato giustiziato dai soldati di fronte ai suoi familiari; di come hanno dovuto portare i corpi dei feriti a spalla per ore di cammino perché stavolta la Croce Rossa internazionale non ha fatto il suo dovere. Molte persone sono ancora disperse, forse sotto le macerie. Altre arrestate, ma Israele non ha rilasciato i numeri degli arrestati. «Cosa fa la comunità internazionale per questa gente? L’assedio dura da 7 anni. È vostra responsabilità di esseri umani di fermarlo. Sappiate che ogni giorno che fallite nel fermare questo, ci saranno bambini, uomini e donne messi a morte».

Mads Gilbert è un medico norvegese che dal 1981 lavora con il sistema sanitario palestinese. «C’è tanta documentazione», dice (UN-OCHAopt, WHO, UNRWA, UNDP; Ministero della Salute), tutto il mondo sa. Racconta la sproporzione tra la marea di gente ferita che affluiva agli ospedali e la capacità di trattarli: «Una notte 500 pazienti sono arrivati all’ospedale Shifa, avevamo 6 sale operatorie e 35 persone che avevano bisogno di essere operate contemporaneamente. Se volete imparare la morale, la disciplina, venite a Gaza: non ricevono salari da un anno eppure continuano a lavorare senza sosta. I massicci danni arrecati a ospedali e cliniche sono incredibili, con enormi conseguenze per il trattamento dei pazienti, la mortalità, la stessa assistenza sanitaria primaria è distrutta (53% degli ospedali e il 60% delle cliniche sono state deliberatamente danneggiate o distrutte: 17 ospedali su 32, e 47 ambulanze) – è stato un attacco deliberato, pianificato, è colonialismo sistematico che mira a sterminare il popolo palestinese, è la dottrina Dahiya. Non ho mai visto palestinesi armati in ospedali, non ho mai visto un missile lanciato da un ospedale».

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