Il cinema italiano ha la memoria corta. Nonostante le straordinarie scoperte delle Giornate di Pordenone e del Cinema Ritrovato di Bologna, il «silent movie» continua ad essere un corpo estraneo, una specie di meteorite su cui si moltiplicano gli studi universitari, ma è tutt’altro che popolare tra il pubblico. Il volumetto che, a cura di Claudio Gallo e Luca Crovi, ripropone il saggio apparso nel settembre del 1906 su «La Lettura», il supplemento mensile del «Corriere della Sera», va nella direzione giusta. Giornalista, autore di alcuni romanzi e di un centinaio di novelle, Giustino Ferri è il primo a raccontare in presa diretta le suggestioni del nuovo mezzo, assistendo per caso a una proiezione cinematografica nella penombra di una sala popolare romana. Strepitoso e lungimirante, lo scritto è uno dei più acuti tra quelli che escono nei tempi prodigiosi degli inizi, intravedendo nel cinematografo «una vera arte nuova, sebbene di ambizioni estetiche modestissime», «un dramma per gli occhi» in grado di rinunciare tranquillamente alle complicazioni psicologiche e, addirittura, alla stessa verosimiglianza. Non trascura le vivaci reazioni del pubblico, anticipando i problemi della ricezione oggi più che mai attuali e talora abusati.

Scoperto il cinema, non esita a fare un sopralluogo alla Cines, fuori porta San Giovanni, l’unico stabilimento esistente nella capitale dove si fabbricano «le films». Varcata la soglia di vetro e di ferro, scopre il set pieno di operai che martellano, attori che si truccano, l’operatore pronto nel suo lungo camiciotto di tela accanto alla macchina appoggiata sul cavalletto e naturalmente il direttore, che non si chiama ancora regista. Come mai il nuovo mezzo ha incontrato subito il favore del pubblico? Su «La Stampa» di Torino del 18 maggio 1907, in «La filosofia del cinematografo», se lo chiede anche Giovanni Papini, per il quale l’attrattiva maggiore sta nella brevità di «una fantasmagoria di venti minuti alla quale tutti possono partecipare per trenta centesimi», che «non esige troppa cultura, troppa attenzione, troppo sforzo». Non gli sfugge neppure l’impressione di realtà, su cui almanaccheranno i teorici futuri: «Una caccia con tutte le sue peripezie, un’avventura di selvaggi, il varo di una nave, un viaggio nelle regioni polari sono spettacoli che sul palcoscenico richiederebbero incessanti mutamenti di scena e spazi grandissimi per dare l’apparenza della verosimiglianza. Invece dinanzi alla bianca tela di un cinematografo noi abbiamo la sensazione che quegli eventi sono veri avvenimenti veduti come si potrebbero vedere in uno specchio che potesse seguirli vertiginosamente nello spazio. Sono immagini – piccole immagini luminose a due dimensioni – ma che danno l’impressione della realtà più delle quinte e degli scenari dipinti di un teatro di prim’ordine». Non sorprende che per lo scrittore il cinematografo sia dunque un argomento degno di riflessione, consigliando vivamente agli «uomini gravi e sapienti di andarci più spesso».

Solo pochi mesi dopo Enrico Thovez in «L’arte di celluloide», su «La Stampa» del 29 luglio 1908 non esita a battezzare nel segno del cinema il nuovo secolo appena iniziato: «Se a dare il nome ad un periodo di tempo è chiamata la creatura o l’idea che maggiore influenza ebbe sugli spiriti, che più profondamente dominò l’esistenza umana, si può anticipare sin d’ora il giudizio. Il secolo attuale non potrà ricevere che un nome: non sarà cioè né il secolo di Marconi, né delle suffragette o di D’Annunzio: sarà semplicemente il secolo del cinematografo. Poiché nessuna opera d’arte, invenzione scientifica, tendenza economica, speculazione ideale, forma di moda potrà contendere per vastità di azione, profondità di penetrazione, universalità di consenso con l’umile cassetta di legno di cui un disgraziato, eretto su di un trespolo nell’ombra di un retrobottega, gira la manovella, o nella quale si svolge l’interminabile nastro di celluloide seminato di microscopiche immaginette».

Non bisogna aspettare molto perché scendano in campo Ricciotto Canudo e Sebastiano Arturo Luciani, i due teorici più rappresentativi del periodo, a cui va il merito di aver avviato con preveggente vivacità – sin da «Trionfo del cinematografo» sul «Nuovo Giornale» di Firenze del 25 novembre 1908 e «Il cinematografo e l’arte» sul «Marzocco», anch’esso di Firenze, del 10 agosto 1913 – la legittimazione estetica della settima arte (pp. 48, euro 12,00).