L’adattamento per il grande schermo a opera di Scorsese, film che ha suscitato reazioni abbastanza diverse da parte di pubblico e critica, ha riacceso l’interesse per Silence, il romanzo Giapponese su cui la pellicola si basa e che fu pubblicato da Shusaku Endo nel 1966. Il libro è considerato una delle opere più importanti del dopoguerra letterario nipponico ed il suo autore una delle voci più uniche ed originali nel panorama culturale dell’arcipelago, soprattutto in virtù del suo essere un artista giapponese cattolico professante, parte cioè di una vera e propria minoranza nel Sol Levante. Il film nel corso degli anni si è declinato in diverse forme artistiche, oltre ad un adattamento teatrale realizzato dallo stesso Endo, l’opera più popolare, prima del lungometraggio di Scorsese, è stata sicuramente la pellicola diretta da Masahiro Shinoda nel ’71.

 

 

Si tratta di un lavoro, Silence, il titolo rimane invariato, che può vantare di una sceneggiatura scritta a quattro mani da Endo stesso e da Shinoda e che si colloca in un periodo centrale ed importante per il cinema giapponese del dopoguerra. Shinoda fa parte di quel gruppo di registi che durante gli anni sessanta e oltre furono raggruppati assieme ed etichettati come Nuberu Baagu giapponese, la nuova onda di autori che in modi e con stili diversi cercarono di staccarsi dal dominio delle grandi produzioni per lanciare un’idea nuova di cinema.

 

 

Benchè, come si diceva, ognuno con la propria personalità, Nagisa Oshima, Imamura Shohei, Kiju Yoshida e Shinoda appunto, solo per nominare i più celebri, cercarono di portare un aria di rinnovamento e di sperimentazione nel cinema del Sol Levante realizzando una serie di opere che ancora oggi vengono viste, apprezzate e (ri)scoperte a livello internazionale. Silence di Shinoda si colloca in questo contesto e rivisto oggi mantiene molte delle caratteristiche del cinema giapponese d’avanguardia di allora, le differenze con il lavoro di Scorsese non sono così tante, anche se importanti, ed anzi i punti in comune, soprattutto riguardo la narrazione, sono moltissimi.
La storia, la stessa nel libro e nel libro di Endo, è quella di due padri portoghesi gesuiti in missione in terra giapponese per spargere il seme del cristianesimo ed avere notizie del loro mentore padre Ferrera e delle difficoltà che incontrano da parte degli ufficiali giapponesi decisi a debellare la religione straniera con la violenza. Torture, uccisioni e tormenti derivati dalla fede che svanisce, ma anche l’ambigua complessità dei kakure kirishitan, i cristiani giapponesi costretti a nascondersi dalle persecuzioni, sono tutti elementi presenti in entrambi gli adattamenti cinematografici, ma ci sembra di poter dire che il tono generale del lavoro di Shinoda sia molto più freddo, austero e simbolico di quello di Scorsese. Questo grazie alle tonalità scure impiegate per la maggior parte delle scene dal direttore della fotografia Kazuo Miyagawa, già collaboratore di Akira Kurosawa, Kenji Mizoguchi e Kon Ichikawa.

 

 

 

 

La fotografia trova un contrappunto nella magnifica musica di Toru Takemitsu, compositore che ha legato il suo nome a molti capolavori del cinema giapponese post bellico, un tappeto minimale e cacofonico che distorce arpeggi di chitarra classica che rimandano al periodo in cui si svolgono le vicende. Fotografia, musica ed un uso volutamente magnificato dei rumori di fondo della natura, cicale, vento e mare soprattutto, contribuiscono così a suggerire quel senso di vuoto e di silenzio del creato di fronte alle indicibili torture ed alle morti dei poveri cristiani giapponesi che è il vero punto presente/assente attorno a cui gira tutto il film e la sua narrazione.

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