L’ennesima udienza del processo al quotidiano Cuhmuriyet, tenuta venerdì fino a tarda serata, si è conclusa con la scarcerazione di nomi pesanti, quelli del caporedattore Murat Sabuncu e del giornalista investigativo Ahmet Sik.

I due giornalisti riottengono la libertà dopo oltre 440 giorni di detenzione preventiva. Dei 18 tra giornalisti, dirigenti e impiegati del quotidiano, Sabuncu e Sik sono gli ultimi due di un gruppo di ostaggi a cui lentamente viene concesso il temporaneo – ma dovuto, c’è una sentenza costituzionale – rilascio.

Soltanto uno ancora attende: Akin Atalay, presidente del consiglio esecutivo del giornale, che rimane in carcere e non si capisce bene perché. Le ragioni della corte a giustificazione del procrastinare i tempi di detenzione, lunghi al punto da poter essere considerati carcere effettivo, vanno dal pericolo di inquinamento delle prove, all’attesa delle deposizioni dei testimoni, al pericolo di fuga.

E poco ha importato se le prove sono documenti e sentenze amministrative già depositati, o articoli di giornale scritti e consegnati alle stampe da anni. Poco importa se talvolta i testimoni chiamati dalla procura non si sono presentati, o se la corte si dimentica (sic!) di convocarli. Poco importa anche che gli imputati, una volta rilasciati, si siano presentati alle successive udienze nei banchi riservati al pubblico, tanta era la loro voglia di fuggire dal paese.

Certo, a parte uno, quel Can Dundar, ex direttore, per cui la corte rinnova il mandato d’arresto. Fuggito da una condanna di 5 anni per rivelazione di segreto di Stato sui carichi di armi diretti in Siria, scampato ad un tentato omicidio fuori dal tribunale, ha visto pochi giorni fa la Corte di cassazione riaprire il suo fascicolo. Sarà processato per spionaggio e rischia fino a 20 anni.

È un processo che, udienza dopo udienza, è divenuto l’emblema non solo di come il giornalismo – d’opposizione, questo il peccato imperdonabile – sia messo alla sbarra, ma di come l’intero sistema giudiziario dello Stato turco proceda attraverso incertezze, superficialità e con l’ombra della persecuzione politica.

Perché la tesi dell’accusa è qui: il giornale dal 2003 avrebbe perduto la bussola kemalista e si sarebbe piegato al servizio del nemico, questa o quella organizzazione terroristica, poco importa quale ma una sì. Infatti tra i testimoni convocati c’è Altan Oymen, giornalista di spessore prima ancora che parlamentare repubblicano di vecchia scuola, a cui i giudici chiedono se la testata abbia, ad un certo punto, abdicato alla sua natura e tradito i suoi lettori.

Il partito repubblicano (Chp) d’opposizione viene così chiamato a certificare l’ortodossia kemalista della linea editoriale del quotidiano. Ma «cos’ha a che fare il Chp con delle accuse di sostegno al terrorismo?» chiede l’avvocato Fikret Ilkiz.

Oymen è lapidario e sostiene: «Il giornale si attiene ai suoi principi» e «se negli articoli si avverte un naturale cozzare di idee, l’idea che si sia allineato ad una setta islamica va oltre la mia comprensione». D’altra parte «è stato per primo Ahmet Sik a raccontare» di come pezzi dello Stato fossero affiliati alla congrega di Gulen.

È nella figura di Ahmet Sik che si condensa tutta l’assurdità di un processo che vede imputati per associazione terroristica coloro che per primi ne denunciarono la pervasività nelle istituzioni. Sik, autore del libro rivelazione L’Esercito dell’imam, per questo suo ardire ha già trascorso due anni e mezzo di carcere – la prima volta fu nel 2011 – senza neppure una condanna.

Sarà anche perché nel 2014 pubblica Paralel Yurüdük Biz Bu Yollarda (Abbiamo camminato fianco a fianco su queste strade), libro che indaga le relazioni tra la Cemaat di Gulen e l’Akp di Erdogan. Questo sì un tema su cui nessun tribunale ha ancora pensato di soffermarsi.