«Gilson è buon testimone che la non piccola influenza del pensiero gentiliano e crociano non m’ha fatto scostare dal buon metodo della ricerca storica la quale consiste, come ha insegnato il nostro Vico, nell’accertare il vero con l’autorità de’ filologi e nell’avverare il certo con le ragioni de’ filosofi». Così Bruno Nardi, nella sua recensione a Dante et la philosophie di Étienne Gilson, apparsa nel 1940 – quando era ormai una figura di spicco, atipica e prestigiosa, nel panorama della medievistica internazionale – metteva a fuoco, anche attraverso il forte richiamo a Vico, il suo modo di accostarsi alla storia della filosofia medievale.
Imperterrito lo scrupolo filologico, il rigore per l’esatta notizia, la trascrizione fedele di un documento, la precisa lettura di un testo, che aveva appreso all’Università cattolica di Lovanio – dove era approdato nel 1908, a ventiquattro anni, con una borsa di studio – e soprattutto, fra il ’12 e il ’16, all’Istituto di Studi superiori di Firenze, dove aveva seguito le lezioni di Pio Rajna, di Girolamo Vitelli, di Ernesto Giacomo Parodi. Ma, ad animare vivacissimamente tutto questo, una forte tensione morale e la passione filosofica.
Dante e Sigieri di Brabante costituiscono per Nardi i poli di una ininterrotta ricerca, filologica e filosofica, fin dalla tesi di dottorato, discussa a Lovanio nel 1911 e dedicata a Sigieri. Contro «la leggenda del tomismo di Dante», che ha un chiaro intento apologetico – Tommaso d’Aquino come il vertice di tutta la speculazione cristiana e Dante come il suo fedele seguace – il giovane Nardi rivendica impavidamente, e proprio a Lovanio, nella cittadella del neotomismo, la decisiva presenza, nel pensiero di Dante, della filosofia di Sigieri, grande maestro dell’Averroismo, sostenitore dell’autonomia della speculazione filosofica rispetto ai documenta spiritualia. Affrontando il problema di Sigieri, Nardi è «trascinato» a riesamninare il complesso panorama della cultura medievale, dove un’importanza fondamentale ha il neoplatonismo, sia attraverso fonti dirette — il Liber de causis, Proclo – sia attraverso gli scritti di Avicenna. E ampio spazio verrà dato in seguito all’opera mediatrice di Alberto Magno – l’esegesi neotomistica l’aveva troppo messo in ombra – così attento alla tradizione dei commentatori arabi. Tutta una linea interpretativa che orienta una nuova concezione dello sviluppo del pensiero e dell’arte di Dante e saranno i Saggi di filosofia dantesca (1930), Dante e la cultura medievale (’42), Nel mondo di Dante (’44), Dal “Convivio” alla “Commedia” (’60), Saggi e note di critica dantesca (’66) – mettendo in primo piano la passione politica della Monarchia, così intrisa di motivi averroistici, e la «visione profetica» della Commedia.
Questa straordinaria figura di uomo e di studioso, nell’intreccio della sua vita, delle sue relazioni, delle sue amicizie, del suo lavoro, viene in primo piano attraverso il ricchissimo archivio delle carte. L’archivio, quando entrò a far parte del patrimonio della Fondazione Ezio Franceschini, a Firenze, nel 1994, insieme alla biblioteca, comprendeva 16 scatole di lettere di studiosi italiani e stranieri; 1 scatola di lettere di editori; 8 pacchi di scritti e di appunti, manoscritti e dattiloscritti. Al primo nucleo di documentazione si è unita, nell’ottobre 2007, la ricca collezione di manoscritti di Nardi, di cui Paolo Mazzantini, che di Nardi è stato allievo e collaboratore, ha voluto far dono alla Fondazione. Abbiamo ora una completa ricostruzione e descrizione dell’archivio in: Claudia Borgia, Inventario dell’archivio di Bruno Nardi (Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, pp. 424, € 52,00). Il lavoro è stato condotto in modo eccellente: Borgia, che nel 2012 ci aveva già dato il prezioso Inventario dell’archivio di Gianfranco Contini, è una grande e appassionata esperta dell’ordinamento scientifico degli archivi privati.
Nell’Introduzione Borgia delinea i momenti principali della vita di Nardi: l’entrata nel Seminario di Pescia, nel 1902 e la sua adesione al Modernismo, l’ordinazione a sacerdote, nel 1907, e l’abbandono del sacerdozio, a seguito di una travagliata riflessione, nel ’14. La formazione filosofica, dopo gli anni di Lovanio, si arricchisce notevolmente con l’esperienza in varie università europee, Vienna, Berlino, Bonn. A Vienna, Nardi segue corsi su Cartesio, su Schopenhauer e sulle correnti filosofiche contemporanee; a Berlino, studia Schopenhauer, Bergson e Nietzsche con Georg Simmel, Storia della Chiesa con Adolf von Harnack, filosofia della religione con l’hegeliano Georg Lasson; a Bonn segue le lezioni di Max Horten sulla filosofia islamica. Ci sono poi gli anni di Mantova, con un fecondo rapporto con la città e le sue istituzioni, e di Roma, con l’insegnamento nei licei e, dal 1938, soltanto come incaricato, all’università. Alla miope ostilità della corporazione accademica, che gli concede la cattedra solo nel ’51, fa riscontro un fervore crescente di studi – su Dante, su Sigieri di Brabante, su Alberto Magno, sull’aristotelismo del Quattro e Cinquecento, su Pietro Pomponazzi … – e un indiscusso riconoscimento internazionale.
Una parte consistente dell’archivio è quella dei materiali di studio e dei manoscritti. Ma il cuore è senz’altro la corrispondenza. Nell’Inventario troviamo la serie dei corrispondenti in ordine alfabetico (pp. 17-193): ogni missiva è descritta in una scheda che presenta la natura della missiva stessa, la data, l’indicazione del luogo e del numero delle carte, con la segnalazione di quelle scritte. Alcuni carteggi sono stati pubblicati: quello tra Nardi e il francescano Emilio Chiocchetti (2004), quello tra Nardi e Giuseppe Prezzolini (’05) e già nel ’98 Peter Dronke pubblicava le lettere di Gilson a Nardi, ma senza le lettere di Nardi. Se scorriamo la serie dei corrispondenti, un nome si impone, non solo perché presente con 101 misssive, ma per ragioni più profonde, quello di Giovanni Gentile. Nardi, fin dagli anni della sua formazione, trova nell’idealismo di Croce e soprattutto nell’attualismo di Gentile un antidoto contro il formalismo inerte e le secche del positivismo. Gentile, lo studioso di Rosmini, di Vico, di Bruno e di Spinoza, diventa un maestro e una guida: quando, nel maggio 1914, Nardi pensa di abbandonare il sacerdozio – come, seguendo «una certa logica interna», farà «senza rimpianto e senza rancore» – è a Gentile che si rivolge per un consiglio (la lunga, emozionante lettera è stata pubblicata da Giorgio Stabile). E nel ’38, in una collana che Gentile dirige per Sansoni uscirà una delle opere più significative di Nardi, la traduzione e il commento del Trattato sull’unità dell’intelletto contro gli averroisti di Tommaso d’Aquino, con un’introduzione di 90 pagine che è una serrata, mirabile storia di tutta la filosofia del XIII secolo. Una grande affinità intellettuale, un legame di stima e di amicizia – «Ella potrà contare di avere in me un amico», scrive Gentile a Nardi nel 1914 – che ci fa desiderare di vedere presto la pubblicazione del carteggio. E tanti altri nomi che compaiono nella serie della corrispondenza – Dal Pra, Mondolfo, Untersteiner, Barbi, Billanovich, Dionisotti, Branca, Diano, Gregory, Schiaffini, Fubini … – fanno apparire questo archivio come una vera miniera che, opportunamente scavata, getterà certo nuova luce su personaggi e idee della cultura italiana del Novecento.