Non soltanto Ilva, non soltanto Taranto. Mentre le indagini preliminari sul Muos a Niscemi mettono in evidenza, quasi come un «effetto collaterale» la pessima qualità dell’aria in quel Comune dovuta alle emissioni di inquinanti dal petrolchimico di Gela, un’altra realtà del Sud, a Potenza, si trova a dover combattere contro un altro ecomostro inquinante, questa volta un siderurgico piazzato nel bel mezzo di zone abitate. Si tratta del Sider, gruppo Pittini stabilimento di Potenza: la fabbrica dei veleni, spesso al centro di inchieste e di approfondimenti da parte della pubblica sicurezza. La visione che offre quotidianamente l’industria parla da sola: oltre ai fumi visibili, tutte le mattine una densa coltre di sostanze, sicuramente di origine artificiale, copre la Città di Potenza e l’odore non è certo di aria fresca e pulita. Non sono solo le zone adiacenti alla fabbrica a soffrirne, ma tutto il comprensorio urbano di Potenza.
Lo scorso sabato – poi – succede un fatto nuovo che allarma la popolazione: intorno alle ore 18 una nube nera sprigionatasi dai cammini della Ferriera ha invaso tutta la zona causando problemi agli occhi e alla gola di molti abitanti. La gente a questo punto inizia a reagire: il prossimo venerdì 14 alle 11 del mattino si terrà un sit-in di protesta davanti i cancelli di Ferriere–Siderpotenza, indetto dal Comitato «Aria Pulita» Basilicata, dalla cittadinanza dei quartieri di Bucaletto e Betlemme (le borgate più interessate all’inquinamento, circa 20.000 abitanti) e le associazioni ambientaliste potentine. I cittadini chiedono un intervento deciso da parte dell’amministrazione comunale davanti all’evidente urgenza di affrontare l’annosa questione della delocalizzazione della Ferriera.
Gli abitanti, a seguito dei dati certi dell’aumento delle malattie tumorali e leucemie, delle tanti morti, chiedono spiegazioni, vogliono sapere «dati alla mano» se e quanto la Sider inquina. Al di là dell’olezzo nauseante e della presenza di fuliggine nell’aria, e del rumore molesto a tutte le ore del giorno e della notte, l’Agenzia Regionale per l’Ambiente dovrebbe provvedere a monitoraggi del particolato sottile Pm2,5 delle diossine e di metalli pesanti con misurazioni dedicate ed in continuo, non effettuate a spot in momenti nei quali il siderurgico non è – per ragioni che non vogliamo indagare – su livelli rilevanti di emissioni. L’eco-mostro, oltre ad essere collocato in pieno centro urbanizzato, sorge ed effettua le lavorazioni di fusione del ferro e trasformazione del materiale detto graniglia ferrosa a ridosso del fiume Basento, il più lungo dei fiumi italiani che sfociano nello Ionio, trasportando possibili depositi tossici lungo tutta la direttrice della Basentana.
Con la situazione dell’Ilva vi sono alcuni punti di contatto interessanti e che ci possono portare ad una riflessione di tipo più generale: anche qui a Potenza si ha la dissociazione evidente del connubio fra «salute» e «lavoro»; pare che ormai venga ritenuto inevitabile che il lavoro possa essere portato soltanto da ecomostri inquinanti che necessariamente devono richiedere una contropartita da pagare in termini di salute dei lavoratori, delle loro famiglie, e della popolazione intorno. Questa vulgata, a furia di venir ripetuta e propagandata anche se magari con asserzioni dispiaciute e fintamente contrarie, si sta facendo strada specialmente nelle giovanissime generazioni. Occorre invece impedire che l’attuale classe dirigente industriale e di potere politico riesca ad instillare nella coscienza comune la rassegnazione a questo preconcetto pseudo-neoliberista di scambio inevitabile e forzoso fra lavoro e salute «in tempi di crisi quando non c’è lavoro», in realtà un regresso ai fantasmi fuligginosi del «Padrone delle Ferriere» e del vetero-capitalismo di rapina di metà ottocento, che consumava sia il carbone che le vite degli operai in nome del progresso. A Taranto, a Potenza, a Gela ed ovunque in Italia dobbiamo ritornare ai «fondamentali»: non vogliamo morire – né far morire – per poter lavorare. E’ agghiacciante doverlo constatare, ma ormai – dopo aver perso sul fronte della precarietà, dei diritti sindacali e di rappresentanza, dei licenziamenti – ci ritroviamo a combattere su una linea di fronte più interna: preservare la vita dei lavoratori e della popolazione dalla morte per lavoro.