«Nessuno si deve permettere di mettere in discussione il mio operato», gelido e furibondo il premier si rivolge a tutti i i presenti nel secondo round del bizzarro consiglio dei ministri a singhiozzo di ieri, convocato in serata. E’ il cdm più caotico, incerto sino all’ultimo, convocato solo in tarda mattina, disertato nella prima tranche dai leader, segnato dall’ira di Giuseppe Conte per l’attacco del sottosegretario Giancarlo Giorgetti, consegnato a un’intervista alla Stampa. Tutto paralizzato per colpa dei pentastellati e Conte non al di sopra delle parti ma «espressione dell’M5S». Parole che avevano mandato letteralmente fuori dai gangheri l’inquilino di palazzo Chigi: «Mettere in dubbio l’imparzialità del premier è cosa non grave ma gravissima». Con acclusa una sfida aperta: «Se lo si fa i percorsi sono chiari e le sedi ufficiali sono il consiglio dei ministri e il Parlamento». Come dire che se non ci si fida del capo del governo la via maestra è la sfiducia, la crisi di governo.

I LEGHISTI SMORZANO, segno evidente che Matteo Salvini non vuole rompere, o non ancora. «Conte è sempre super partes», dichiara sornione. Poi è lo stesso sottosegretario leghista a gettare un po’ d’acqua sulle fiamme: «Il premier è stato indicato dai 5S. Dirlo non è mica un’offesa». Ma Conte a lasciar correre non ci pensa nemmeno e di fronte al governo riunito va giù anche più duro. Giorgetti non c’è, grazie a un impegno istituzionale preso già da tempo. Poco importa. Il messaggio è rivolto al leader della Lega quanto e più che al suo braccio destro. Da settimane è chiaro che lo scontro di potere davvero duro è quello tra Conte e Salvini, con Luigi Di Maio non certo equidistante. «La Lega ha perso la testa», dichiarava il capo pentastellato alla vigilia del match.

Il premier è ormai determinato ad affermare il suo ruolo costi quel che costi. La Lega è altrettanto avvelenata. Un po’ perché, anche se nessuno lo ammette per ovvie esigenze diplomatiche, tutti, Salvini in testa, sono convinti che Giorgetti abbia ragione e che al momento di scegliere il capo del governo si schieri sempre con il suo partito. Ma un po’, anzi molto, perché Salvini ritiene che ci sia proprio Conte dietro la figuraccia che gli è stata fatta fare in diretta tv domenica sera. Quando, senza avvertirlo, i profughi della Sea Watch sono stati fatti sbarcare proprio mentre lui dichiarava che il porto di Lampedusa per quei profughi non sarebbe mai stato aperto. Certo, a prendere la decisione è stato il procuratore di Agrigento, ma il sospetto che a indicare quella obliqua via d’uscita per risolvere il caso senza provocare uno scontro aperto nel governo sia stato proprio l’avvocato di palazzo Chigi per il Carroccio è quasi una certezza.

MA SIN QUI, IN FONDO, si tratta ancora solo di parole e pessimi umori. Ma Conte arriva anche alla sostanza. Neppure la nuova versione del decreto sicurezza bis, portata ieri al consiglio dei ministri e in realtà più rigida dell’originale, è accettabile. «E’ pieno di buchi dal punto di vista del diritto e persino della Costituzione», abbatte l’ascia il premier. In realtà l’eventualità che ieri fossero approvati i due decreti bandiera dei soci della maggioranza, quello sulla sicurezza e, per i 5 Stelle, quello sulla famiglia, non è mai stata nemmeno presa in considerazione. L’ordine del giorno parlava solo di un «primo esame» e neppure l’eventualità di un semaforo verde per le autonomie, altro cavallo di battaglia cavalcato dal Carroccio nell’ultimo cdm prima del voto, era realistica. Nel concreto si sapeva che quanto a scelte reali non si sarebbe andati oltre la nomina di Biagio Mazzotta come nuovo ragioniere dello Stato e di Giuseppe Zafarana come nuovo capo della guardia di Finanza.

PER SALVINI ERA PERÒ essenziale poter uscire dalla riunione-scontro potendo dire che il suo decreto era almeno in dirittura d’arrivo. Conte, forte dell’appoggio dei 5 Stelle ma anche dei dubbi del Colle, dei costituzionalisti e dell’Onu, non vuole permetterlo. Salvini ne era consapevole sin dall’inizio: «Andiamo a battagliare», annunciava entrando a palazzo Chigi. E’ una battaglia che prosegue da settimane e il cui esito si capirà solo dopo le elezioni. Salvini non vuole rompere anche se avverte: «Però bisogna essere in due». Buona parte del suo partito, quella a cui ha dato voce il sottosegretario Giorgetti, la pensa in maniera opposta.