Matteo Renzi, Leoluca Orlando, Angelino Alfano, Pier Casini, Giampiero D’Alia, Bruno Tabacci e Totò Cardinale. È quel che resta del «modello Palermo» dopo l’addio delle varie anime della sinistra alla grande ammucchiata che ha rieletto Orlando sindaco di Palermo.

È né più né meno che una grande reunion di ex Dc della prima repubblica sparsi sotto diverse sigle; una sorta di «nazionale democristiana», messa in campo da Leoluca Orlando, il sindaco delle venti e passa primavere mai realmente fiorite a Palermo, per le elezioni regionali siciliane di novembre, e perfezionata dal Nazareno con il patto Renzi-Alfano in vista delle prossime politiche nazionali.

Ma è anche la versione in salsa sicula dello sciagurato «modello Roma», praticato un anno e mezzo fa dal Partito democratico nella Capitale con l’estromissione di Ignazio Marino dal Campidoglio per mano notarile. Obiettivo: sostituire a tavolino Rosario Crocetta, che resta comunque in corsa dopo aver chiesto inascoltato le primarie per la scelta del candidato governatore del centro sinistra, con il rettore dell’università di Palermo Fabrizio Micari, un «signor nessuno» oltre Monte Pellegrino, scovato dallo stesso Orlando per guidare il centro ormai senza sinistra nella competizione regionale.

La redazione del programma, sempre su mandato di Orlando, è stata affidata a Vittorino La Placa (detto Rino), ex consigliere comunale Dc a Palermo negli anni ’80, ex deputato regionale Dc negli anni ’90, e attualmente presidente dell’Associazione degli ex deputati dell’Assemblea siciliana.

Insomma, un pentapartito monocolore dagli esiti imprevedibili. Ma in questo inedito scenario, cosa resta dei big del Pd siciliano di estrazione non democristiana, che detestano Orlando nella stessa misura in cui il sempre sindaco detesta il Pd? Relegati al ruolo di gregari, sperano nel miracolo di Santa Rosalia per poter poi sperare, in Sicilia o a Roma, di ottenere un posto di lavoro sotto le «stelle» scudocrociate.