Dei programmi che vengono sbandierati da una parte e dall’altra come priorità attorno cui costruire le coalizioni non c’è neppure l’ombra quando mancano tre mesi scarsi alle elezioni regionali. Quanto sta accadendo in questa rovente estate in Sicilia, dove i 5stelle sono in campagna elettorale da tre settimane col candidato Giancarlo Cancelleri in tour preso per mano da Di Battista e Di Maio, si può leggere in un solo modo: giochi di potere. Il caos che regna nei partiti – alle prese con l’unica cosa che conta e cioè la scelta del candidato per la presidenza della Regione – appare senza sbocco, anche se alla fine Pd, centristi, Forza Italia e compagnia bella riusciranno a galleggiare, in un modo o nell’altro, buttando nella mischia un nome. Meglio, secondo i più volponi, che sia il più debole possibile per poterlo controllare qualora il giochetto dovesse superare la prova dell’urna. Sulla scena del teatrino ci sono proprio tutti: da Renzi a Berlusconi, da Casini ad Alfano. Al Nazareno e ad Arcore la pratica Sicilia è in cima ai dossier. Il vecchio che avanza col manuale Cencelli sotto braccio e che ritiene l’isola strategica per gli equilibri di potere e per le alleanze delle politiche di primavera. E che sta trascinando nella baraonda anche quei movimenti che stanno tentando a fatica di ricostruire dalle macerie – da Mdp a Sinistra italiana – giocandosi la carta del «civismo» e consegnandosi a Leoluca Orlando con una strategia al ribasso per resistere a una restaurazione che sembra l’unica alternativa ai grillini. In questo quadro è facile ipotizzare un astensionismo alle stelle, superiore al 52 per cento di cinque anni fa. Eppure il centrosinistra e il centrodestra due candidati «naturali» li avrebbero già in casa: Rosario Crocetta e Nello Musumeci. Su entrambi però ci sono veti, gelosie politiche e pregiudizi, classici di una politica – vecchia, opportunista o ideologica – che pensa alle poltrone e ad avere le mani libere rispetto a un candidato forte e fuori dagli schemi tradizionali: che poi di poltrone ce ne saranno venti in meno (da 90 a 70 deputati) nella prossima legislatura è un problema in più.

Crocetta, sulla base dello statuto del Pd – il suo partito – ha diritto a ricandidarsi per il secondo mandato. Ciò nonostante dai «suoi» viene considerato alla stregua di un «appestato»: dal ponte che cede al rogo nel pizzo della montagna la colpa è sempre di Crocetta. Quel Crocetta che ha rimesso in sesto i conti falsi della Regione «drogati» dai governi Cuffaro e Lombardo, che ha rotto il sistema della formazione-bancomat, ha tagliato gli sprechi nella spesa farmaceutica. Chi lo ha sostenuto e lo sostiene ancora – Pd, Sicilia Futura dell’ex ministro Totò Cardinale, centristi di Casini e D’Alia, Ap di Alfano – mantenendo in giunta gli assessori conduce un doppio gioco: basta Crocetta, avanti con un candidato più addomesticabile o tecnico. Non ha fatto breccia neppure l’appello alle primarie fatto dal governatore per cercare di rivitalizzare una coalizione comatosa che ritiene di poter battere il M5s con coalizioni accozzaglie e liste civiche camuffate.

Stucchevole il dibattito attorno ad Ap, un «partitino» in Sicilia: neppure ad Agrigento, suo bacino elettorale, Alfano è mai riuscito a incamerare voti degni di un leader di partito. Eppure, la creatura «centrista» dell’ex delfino di Berlusconi, nella politica scollegata con la realtà, appare come l’ago della bilancia. Corteggiato da pezzi di Forza Italia con in testa il commissario del partito in Sicilia Gianfranco Miccichè, sempre più lacerata soprattutto dopo il flop alle comunali di Palermo, e dal Pd che dopo il «no, grazie» di Piero Grasso naviga senza bussola. In Sicilia persino i cosiddetti «renziani» sono l’uno contro l’altro armati: ci sono i duri e puri di Faraone, i neofiti di Sicilia Futura dell’ex ministro Totò Cardinale e gli ultimi arrivati, quelli che hanno sostenuto la riforma costituzionale; una sorta di condominio dove il sospetto è l’anticamera del tradimento. Cercando di giocare d’anticipo, ieri Casini ha messo sul tavolo tre nomi: Gianpiero D’Alia, ex presidente dell’Udc e ora leader di «Centristi per l’Europa»; Giovanni La Via, eurodeputato catanese di Ap e l’avvocato palermitano Dore Misuraca. Nomi che si aggiungono ai tecnici Caterina Chinnici (già assessore con Lombardo), al rettore di Palermo Fabrizio Micari e al suo predecessore Roberto Lagalla; una fuga in avanti che non è piaciuta in casa Ap, col coordinatore Giuseppe Castiglione che ha subito precisato che «non c’è alcun accordo col Pd, ma un dialogo aperto».

Un modo per tenere aperto il confronto con Miccichè che sta cercando di convincere Berlusconi a riabbracciare il «traditore» Alfano. L’ex Cavaliere ha preso tempo, anche perché Meloni e Salvini hanno scelto di sostenere Musumeci, leader del movimento «Diventerà bellissima», ma soprattutto storico esponente del Msi e in passato sottosegretario nel governo Berlusconi. Cinque anni fa Musumeci arrivò secondo nella corsa a governatore, arrivando davanti a Miccichè (quarto) che si candidò pur di non sostenerlo, spaccando il centrodestra.