Col vocativo «domine» nelle preghiere in latino durante la messa, il sacerdote e i fedeli si rivolgono deferenti al Signore Gesù. Lo stesso vocabolo, equivalente a «signore», stava a indicare il padrone di una bottega, il proprietario di una casa, chiunque possedesse beni materiali di evidente consistenza. «Signore», da cui signorile, è corrisposto a chi, rispettoso verso gli altri e meritevole di rispetto, si faceva notare per il buon gusto, il portamento garbato, l’indole sensibile e generosa, il tratto corretto del galantuomo… si sarebbe detto una volta. Da titolo distintivo e onorifico, peraltro, è mutato in un appellativo ordinario e condiviso, senz’altro democratico. Nei propositi. Poi, si sa, nei fatti contano anche le formalità. Essendo tutti signori, ogni singolo tende a caratterizzarsi, a ritagliarsi una peculiarità, mediante il raggiungimento di qualifiche e cariche.

Semplicemente, se sprovvisto di grado sociale o (di rado) disinteressato alle etichette, facendosi identificare con il proprio nome. Il termine «signore»rivolto a chicchessia, presupponendo l’ambito nel quale una società indirizzata da politiche progressiste e riformatrici dovrebbe essere fondata su rapporti paritari, si rivela come un modo di dire illusorio se non simulato o ingannevole. Un individuo oggettivamente spregevole, che suscita unanime sdegno e riprovazione in quanto lede principi morali e convincimenti cristallizzati, oltre che norme penali, è comunque un signore. Benché lontano dal comune sentire del «signore» nell’accezione più nobile (d’animo) del termine. D’altra parte compiremmo una forzatura sul significato di «signore» nel definire tale colui che, subendo pregiudizi sociali, si ritrova emarginato e per rifugio una fradicia scatola di cartone confusa tra mucchi di rifiuti abbandonati sotto qualche arcata di viadotto autostradale. Ancora signore ovvero, pur svuotato di contenuto ingiurioso, straccione? Nel tempo ci sono stati i signori e ci sono stati i cafoni.

Nella sua opera letteraria più conosciuta («Fontamara», degli anni ’30) Ignazio Silone, nel testimoniare la subalternità dei cafoni (il proletariato del contado oppresso e sfruttato, ancorché incolto e rozzo) ai signori, distingueva le due categorie sociali. Quella distinzione non c’è più. Non c’è più perché è bastevole chiamarci l’un l’altro signori o perché, senza riconoscerne la condizione, siamo nel profondo dei cafoni, dato l’involgarimento dei tempi correnti? Le due facce si fondono, mostrando a seconda delle circostanze, in ognuno, modi civili ipocriti e modi grossolani autentici. Riprendendo «domine», «o signore», a noi piace declinarlo nell’ablativo «domino». Fa ricordare il nome e l’ambiente di un bar, chiuso da decenni, nel quale, non ancora signori, aveva adito la spontaneità dei nostri vent’anni.