Sembra invertirsi il rapporto di subalternità politica e psicologica che faceva dire a Salvemini, con ironia, che l’Italia si divide in nordici e sudici. Nel senso che l’esito del referendum mostra l’esistenza di una “questione settentrionale” se la civilissima Bolzano se ne frega di far proseguire le estrazioni di gas e petrolio a tempo indeterminato (17% di affluenza) o se l’altrettanto civilissima Milano, reduce ancora dai fasti cibari dell’Expo, vota così blandamente (31%), superando di poco Ravenna (28%) che evidentemente vuole conservare le sue trivelle nonostante l’acqua rossa, i pesci morti spiaggiati e l’abbassamento progressivo delle coste.

L’esito del referendum mostra altresì una ripulitura dei “sudici”, un disinquinamento anche mentale, e indica una possibile uscita dalla “questione meridionale” se Matera dice un no così netto alle trivelle (52%), come Potenza (49%) o Lecce 46%), o Brindisi ( 40%), o Taranto (42%), fino alla stessa Bari (42%).

In queste città della Basilicata (50,4%) e della Puglia (46,52%) è maturata infatti, in questi anni , una coscienza ecologica, frutto di vere lotte: lotte collettive, di intere comunità, contro le estrazioni della Total di Tempa Rossa, contro il deposito di scorie nucleari a Scanzano, contro il gasdotto della Trans Adriatic Pipeline che, in un groviglio di interessi, offenderà le più belle coste di Santa Foca, contro il mostro produttore di tumori dell’Ilva o il carbone altrettanto nefasto della centrale dell’Enel.

Sono state lotte scaturite dall’impegno e dal dolore, dalla sofferenza cruda: di operai ammalati, di padri e madri di bambini non nati, di paesaggi devastati, dell’identità culturale minacciata. Esse hanno dato respiro ai flussi elettorali, facendo partecipare pezzi ampi di popolazione, incitando le prese di posizione di artisti e giovani e comitati e anche, non ultimo, dei governatori delle due regioni che hanno scelto di farsi voce dei loro territori e non della corruzione di politici e imprenditori.

Mao Valpiana scriveva oggi, sui social, “Siamo tutti materani”. Lo dico anche io (con la stessa passione con cui in anni passati ho pensato “siamo tutti no Tav”), ammirata da questa città che negli anni cinquanta era additata come vergogna nazionale dagli sviluppisti e che oggi, non avendo rinnegato i sassi, le grotte, l’acqua, la pietra, i lavori artigianali e agricoli, le conoscenze tradizionali, è diventata un modello di città sostenibile e democratica.

Capitale della Basilicata, la regione con i più grandi giacimenti di petrolio non solo del Paese ma di tutta l’Europa occidentale, Matera è oggi veramente diventata Capitale della Cultura per il 2019 perché ci ha detto chiaramente che la corsa all’oro nero è una scelta sbagliata che, a fronte di numeri dell’occupazione irrisori, minaccia irreversibilmente le preziose risorse idriche, naturali, economiche, storiche e memoriali.

Appunto le risorse culturali, perché la cultura non è solo nei libri, nei quadri o nelle invenzioni solitarie, ma la cultura – come si legge nelle motivazioni per cui è diventata Patrimonio Unesco e bene comune dell’umanità – è nel rapporto armonico che, anche in condizioni di povertà, i popoli riescono a stabilire con la Natura, con la propria storia, con l’insieme dei viventi e della biodiversità.

Perché la cultura è innanzitutto, come dissero i costituenti che ne affidarono la protezione alla Repubblica, il Paesaggio , il primo bene comune, il fondamento della patria, in quanto contenitore dell’intelligenza, della manualità, dell’affettività, dell’immaginazione della sua gente.

Sì anche dell’immaginazione, valore da non trivellare e che era nella posta in gioco di questo referendum. Perché chi ha votato e fatto votare con convinzione, almeno qui in Puglia, lo ha fatto per dire no ai petrolieri, allo svuotamento della democrazia, alla deriva dell’informazione, ma lo ha fatto soprattutto perché si è fatto incantare dal mare (lo slogan regionale era infatti: “Noi Si-amo il mare”): il mare dei bagni d’infanzia, delle cozze mangiate nelle sciale popolari, degli sbarchi sempre accoglienti, e dell’orizzonte che deve essere aperto, sgombro, senza trivelle, se vuoi naufragare con la poesia o pensare l’infinito con la filosofia.

Ed è perciò dall’immaginazione che viene una lezione alla nostra politica, perché non bastano i discorsi razionali, utilitaristici, per la difesa del mare ma ci vuole anche un immaginario del mare, una adesione sentimentale, un “farsi mare”. Ce lo insegnò Ivan Illich, il grande ecologista, in un libro delizioso (“H2O e le acque dell’oblio“), in cui ricordava che quando la municipalità di Dallas gli chiese di fare proposte avanzate sul depuratore cittadino in costruzione, lui rispose, lasciando tutti stupiti, dobbiamo prima di tutto “farci acqua”, farci Mare”.