In fondo era solo il 1955 quando davanti alla Ducati di Bologna alcune ragazze giovanissime furono arrestate, processate e condannate, con l’accusa di accattonaggio, perché offrivano mimose alle operaie in lotta contro i licenziamenti. Potremmo, oggi, considerarci soddisfatte di aver lasciato per sempre alle nostre spalle quei tempi “moderni”. Però la cronaca di questi giorni ci racconta di una ragazza a Vicenza, condannata a 15 giorni di carcere per aver abortito. La donna, ghanese, si era imbottita di farmaci per procurarsi l’interruzione della gravidanza, per la quarta volta.

Storia e cronaca si parlano e ci ricordano perché tante ragazze, in Italia e nel mondo, sono in piazza all’insegna dello sciopero generale. L’esplosione della protesta, in Italia come altrove, abbraccia le due storie, la repressione degli anni ’50 e quella di oggi, vicende sorelle di una condizione comune, nel lavoro e nel privato.

Le donne che oggi manifestano agiscono con un protagonismo politico che ricorda quello degli anni ’70 del secolo scorso quando il femminismo interpretò e rappresentò la rivoluzione culturale di un movimento giovane e radicale. Come lo è quello di questo 2017 quando il lavoro e lo sciopero entrano a far parte della sua esperienza, dettato dalla condizione sociale di chi ha la mente aperta e la borsa vuota.

Così si capisce poco questa polemica sullo sciopero al femminile, come se la conclamata condizione di massima precarietà ancora non fosse sufficiente a motivarlo. Polemizza chi si sente spiazzato e critica l’uso di uno strumento di lotta concreta che non ha nulla di simbolico. Infatti il senso della parola d’ordine dello sciopero di ieri è la conseguenza di condizioni di lavoro insopportabili, tanto fuori che in famiglia.

È uno sciopero politico, che peraltro ha coinvolto sindacati di base e la Cgil in un settore strategico come quello del mondo della scuola. Come altrettanti no ha ricevuto dai Confederali negli altri settori. E dalla Fiom. All’ordine del giorno c’è il lavoro delle donne nel paese europeo che ha il tasso più basso di occupazione femminile dopo Grecia e Cipro. Sarebbero necessari altri 170 anni per colmare quel 23% di disparità di salario delle donne che abbatte le retribuzioni femminili, dicono i dati Oxfam. Perché la crisi brucia per tutti ma specialmente sulla pelle di chi è costretta, nella misura dell’81%, a ricorrere al part-time involontario.

Naturalmente la forte radice femminista di queste mobilitazioni si esprime nella battaglia contro la violenza che porta la guerra e i suoi morti dentro casa, davanti ai figli. Perpetuandola se è vero che tra gli uomini che usano violenza, a mogli e figlie, c’è lo zoccolo duro del 22% che ha assistito alle violenze del padre sulla madre. Ieri si moriva di aborto clandestino, e si riempivano le piazze per difendere un diritto nella più universale battaglia per l’autodeterminazione dell’essere umano. Oggi si muore di femminicidio e continua a fare scandalo se un’amministrazione regionale chiede di assumere anche medici non obiettori. C’è persino chi si stupisce che il crollo della nascite non conosca limiti nel nostro paese.

Nella consueta cerimonia del Quirinale il presidente Mattarella ieri ha parlato di una voce femminile «autorevole e credibile, che non ha bisogno di alzare i toni, anche se alzarli, in alcuni casi diventa l’unico modo per farsi sentire». Lo sciopero di questo Lotto Marzo sembra proprio esserci riuscito.