Solo pochi metri separano a Roma il palazzo del Senato da piazza del Pantheon, dove centinaia di persone ieri si sono riuniti per chiedere che la legge sulla cittadinanza, che permetterebbe a circa un milione di giovani figli di immigrati ma nati in gran parte nel nostro paese, di diventare cittadini italiani. In realtà ancora una volta la distanza tra la politica e la società è molto più ampia, ormai quasi incolmabile. Come è successo un anno fa con le unioni civili e come succede in questi giorni con la libertà individuale di poter scegliere come vivere e morire, anche per la cittadinanza gli italiani dimostrano di essere anni luce più avanti dei politici che dovrebbero rappresentarli.

Questa distanza ieri si poteva toccare con mano nella piazza romana dove tanti ragazzi si sono riuniti per chiedere al Senato, dove da 15 mesi la legge è ferma, di varare finalmente lo ius soli. Sono venuti da tutta Italia, ex ragazzi ormai adulti, ma anche bambini come gli studenti della Carlo Pisacane, una delle scuole multiculturali di Roma. Rappresentano quegli italiani che per la legge non esistono ma che, dopo anni di anticamera, stanchi di aspettare chiedono adesso di essere finalmente riconosciuti come cittadini. «Chi cresce o nasce in Italia è italiano», dice dal palco Paula Baudet Vivanco di «Italiani senza cittadinanza», che insieme a «L’Italia sono anch’io» e a una miriade di altre associazioni ha indetto la manifestazione. «Torneremo nelle piazze come abbiamo già fatto a Milano e a Londra per chiedere che la legge cambi, e non ci fermeremo. Non è possibile che a questi bambini non sia riconosciuto un diritto fondamentale».

Fermo a un lato della piazza insieme a due amici c’è anche Boenga Alessandro. I genitori sono immigrati dal Congo ma se gli chiedi dove è nato non ti dice a Roma ma solo «al San Camillo», che è il nome di un ospedale romano. Oggi ha 29 anni, la cittadinanza l’ha richiesta una volta diventato maggiorenne. «Fino ad allora però è stato come vivere in un incubo», racconta. «Giocavo bene a calcio, nelle giovanili di una squadra di serie B. All’epoca però le regole imponevano che in ogni squadra non potessero esserci più di cinque stranieri, e così mi hanno rimandato a casa».
«Se oggi sono italiana lo devo a mia madre», spiega invece Johanne, 36 anni, mamma haitiana e papà ghanese. «Quando sono diventata maggiorenne mi diceva sempre “Fai la domanda, fai la domanda”. A me sembrava assurdo, perché io mi sentivo già italiana, ma aveva ragione lei».

Raccontano delle umiliazioni subite negli uffici stranieri della questura ogni volta che il permesso di soggiorno scadeva – «non ci consideravano delle persone» – dei costi che il rinnovo comporta per le famiglie. «150, 200 euro a persona ogni due anni – prosegue Boenga – Per una famiglia sono una spesa. E se perdi il lavoro sei fuori».
Boenga e Johanne ce l’hanno fatta, anche se hanno dovuto aspetta di avere 18 anni per diventare cittadini italiani. Un’attesa alla quale per ora sono destinati anche i tanti bambini che affollano piazza del Pantheon e nati in Italia. Solo per l’incapacità e la scarsa volontà della politica. Stando a un sondaggio pubblicato a metà gennaio tre italiani su quattro sono favorevoli alla legge ferma in parlamento, un mix tra ius soli e ius culturae. «Non voglio dare false speranze, ma sono convinta che questa volta ce la faremo» spiega la senatrice dei Democratici e progressisti Denis Lo Moro, madrina della legge. A pochi passi da lei anche Matteo Orfini garantisce l’impegno del partito. Il reggente del Pd giorni fa si è spinto a chiedere al governo di porre la fiducia sul testo ma la mossa è sembrata a molti più che altro un modo per mettere in difficoltà il premier Gentiloni. Se Orfini e il Pd fanno sul serio, questo è il momento di dimostarlo. «Il capogruppo Zanda ci ha promesso che il testo farà ancora un passaggio in commissione Affari costituzionali, ma se la Lega continuerà a fare ostruzionismo verrà portato in aula», assicura il vicepresidente dell’Arci Filippo Miraglia. A quel punto le carte di tutti si scoprirebbero. «Roma non fa la stupida stasera», cantano su palco i bambini della Pisacane. Ma l’invito, più che alla capitale, questa volta sembra rivolto ad altri.