Etienne Balibar si chiede dalle colonne del manifesto (martedì 17 novembre) contro chi siamo in guerra, Tonino Perna (sempre sul manifesto del 17) ci ricorda che le bombe non hanno mai sconfitto il terrorismo, come l’esercito non ha mai debellato la mafia. Se proviamo a rispondere alla prima domanda e seguire la logica della seconda affermazione, arriviamo a delle conclusioni forse paradossali ma estremamente vere, cioè che siamo in guerra contro noi stessi e che continuare a farci la guerra non risolverà i nostri problemi.

Siamo in guerra contro noi stessi perché i ragazzi che si sono suicidati ed hanno ammazzato altri ragazzi, erano cittadini europei, francesi o belgi poco importa. Sono i ragazzi generati dalle nostre periferie, i figli di quei luoghi eccentrici rispetto allo splendore artificiale di uno stile di vita che viene proposto come autentico mentre irradia solo la luce nera della disperazione esistenziale di un vuoto riempito di merci. Ma mentre qualcuno può accedere a questa reificazione del proprio essere e far finta di divertirsi, all’interno delle «libertà repubblicane», altri questa stessa reificazione non se la possono permettere, se ne sentono esclusi, ed il loro vuoto viene colmato dal fanatismo omicida-suicida sotto forma di un malinteso credo religioso.

È dunque l’alterità, cioè il rispecchiamento tra vittime e carnefici, che bisogna interrogare per capire come risolvere questo grumo che crea il terreno di coltura dell’intolleranza reciproca, della perversa alternanza dei ruoli, della possibilità che anche gli innocenti diventino carnefici per il solo fatto di vivere in un modo che sembra impossibile da praticare ad un‘altra parte dell’umanità.
Forse, prima di seguire la coazione a ripetere – attentati, bombe, attentati – dovremmo allungare lo sguardo sulle nostre città ordinate e splendenti, quelle che vogliamo tanto accanitamente difendere dall’altro, e chiederci su cosa sono edificate, dove pescano le loro radici. Ci troveremmo allora confrontati con un sottosuolo fatto della stessa materia da cui il terrorismo plasma le sue vittime-carnefici, gente che si suicida uccidendo. È un errore di prospettiva dire che il terrorismo è di «matrice islamica» poiché la matrice è la nostra stessa civiltà escludente ed ineguale che l’ha prodotta. Noi ne siamo i detentori materiali e simbolici e l’abbiamo esportata e moltiplicata tutte le volte che lo abbiamo ritenuto opportuno per alimentare il nostro stile di vita alienato ed alienate. L’islam oggi, come altri fanatismi altrove, sono solo l’impronta di quella matrice, non il suo stampo. Il fanatismo religioso è solo uno dei geni imprigionati nella bottiglia che incautamente abbiamo liberato perché potessero esaudire i nostri insani desideri.

Le ideologie integraliste si limitano dunque a colare nella matrice da noi creata quella stessa materia che rappresenta lo scarto della nostra vita sopra le righe: le vite in eccesso, che tracimano, che non possono essere accolte nel supermercato globale perché servono più da escluse che da incluse, spesso più da morti che da vivi. Non è questa l’essenza della biopolitica?
D’altra parte non abbiamo sempre dimostrato con i fatti che in realtà i valori repubblicani non sono veramente per tutti? Sarebbe d’altronde possibile praticarli come facciamo adesso se fossero realmente disponibili per tutta l’umanità? Quanto costa mantenerci in vita? Quante armi ci vogliono per difendere il nostro potere di acquisto? Quanta energia? Ma questa drammatica evidenza oggi è palese non solo a distanza, nelle periferie impoverite del mondo dove nemmeno è pensabile avere il più basico dei diritti umani, quello all’esistenza, ma anche molto vicino a noi, nel nostro stesso corpo europeo, nelle nostre stesse banlieue.

Ecco perché alla fine della storia siamo noi i nostri nemici perché, come nella favola il Genio si ribella al suo liberatore, così i fanatici che abbiamo foraggiato si sono ribellati a noi ed oggi ci ripagano organizzando l’esclusione sociale dei nostri territori forgiandone armi umane pronte a morire pur di lasciare una traccia nelle nostre vite narcotizzate. E dunque, come in quel racconto dell’orrore in cui l’assassino alla fine si accorge che il coltello che lui credeva puntato verso l’avversario è invece direttamente a contatto col suo stesso cuore, meglio puntare lo sguardo su noi stessi, riaprire le porte alla costruzione di una società inclusiva, eliminare i picchi intollerabili degli sprechi, contrapporre le diversità alle diseguaglianze. E ricordarsi, contro ogni razzismo, di quel proverbio arabo che dice: un albero non si giudica dalle radici ma dai frutti.