«Chi si scandalizza è sempre banale. Ma, aggiungo, è sempre anche male informato». Pier Paolo Pasolini dixit, e la citazione è in un libricino scritto da Lucrezia Ercoli con le belle stampe del Melangolo, uscito quest’anno: “Chiara Ferragni. Filosofia di una influencer”.

Altri pensatori e pensatrici, da Aristotele a Walter Benjamin, da Simone de Beauvoir a Umberto Eco e Martha Nussbaum (ma l’elenco è assai più lungo), vengono chiamati in causa per non prendere sottogamba fenomeni come quello dello “statuto mediatico” – avrebbe detto Debord – di Ferragni e del marito Fedez, con il figlio Leone. Realtà familiar-spettacolare e imprenditoriale sincopata nel neologismo Ferragnez, dove è chiaro dove sta la magna pars della faccenda.

Recentemente ha destato scandalo che Chiara Ferragni sia stata associata alla Venere del Botticelli per promuovere la Galleria degli Uffizi. Ma nessuno ha avuto da ridire sul fatto che, grazie a lei, siano stati raccolti in una giornata 3 milioni di euro in 92 paesi da destinare all’incremento della terapia intensiva del San Raffaele di Milano, all’alba del Covid.

Il libro racconta come la ragazza di buona famiglia che studia e gioca con la Barbie e a lei si ispira per il suo primo blog, The Blonde Salad, sia diventata nell’arco di un decennio un simbolo per 20 milioni di follower.

La via seguita è quella dell’identificazione totale con il flusso della moda e dei consumi di lusso (e i prodotti a prezzi “popolari” che quei marchi mimano). Il testo scherza sull’esistenza o meno di una “vita privata” di Ferragni al di là dell’immagine e della sua storia – e delle tante sue storie – che vengono postate sui social, e riassunte in un film, Chiara Ferragni Unposted, presentato all’ultima mostra di Venezia.

Che come al solito ha diviso acerrimi detrattori e entusiasti fan, e che comunque nei tre giorni in cui è stato in sala ha incassato 1 milione e 600 mila euro, sbaragliando varie classifiche.

Si può pensare che si tratti di un monumento dell’adesione ideologica e consumistica al regime dato, ma l’autrice è di parere, mi pare, un po’ diverso. Ferragni conquista il suo pubblico, soprattutto giovanile e in larga parte femminile , perché la fiaba narra di una giovane donna che realizza il suo sogno da sola, “non c’è nessun uomo a manovrare le azioni di Chiara”.

Vorrei mettere accanto alla storia mediatica di Ferragni – spero che nessune dei due se ne abbia a male, ammesso che noti questo scritto – quella, del tutto antitetica, di Gianni Cuperlo. Mi ha sorpreso una analisi letta poco tempo fa sul giornale on line TPI.it  secondo la quale la presenza sui social dell’esponente del Pd che ha fatto della mitezza e ricchezza argomentativa la sua cifra sta conoscendo un successo imprevedibile: «In quel grande ingorgo che sono i social network – scriveva Giuliana Sias il 4 settembre scorso – sta passando inosservato il grande sorpasso di uno dei pochi che guida rispettando i limiti di velocità, percorrendo le strade meno battute e andando controcorrente rispetto agli standard della comunicazione politica contemporanea.

Molto a sorpresa, la pagina Facebook di Gianni Cuperlo cresce come nessun’altra tra i politici, ma soprattutto cresce nonostante un divario di partenza pressoché incolmabile». Cuperlo non dispone di alcuna “bestia” mediatica alla Salvini, scrive testi lunghissimi, e a volte difficili. Ma il suo pubblico è in continua crescita ed è interessato al dialogo. A modo suo, anche lui non dispera di “farcela da solo”?

Studiamo il Ferragni-case, dunque, ma non scartiamo un artigianato controcorrente di qualità…