Poco dopo le tre del pomeriggio quattro bambini si affacciano a una delle finestre situate al primo piano dell’edificio di via Curtatone e danno vita a un piccolo ma deciso coro: «Vo-glia-mo uscire, vo-glia-mo uscire» gridano guardando i poliziotti (per la verità un po’ annoiati) che presidiano la sottostante piazza Indipendenza.
Da cinque giorni, da quando sabato scorso la polizia si è presentata in forze per sgomberare questo grande palazzo bianco a due passi dalla stazione Termini occupato dal 2013 da circa 800 rifugiati eritrei ed etiopi, almeno una sessantina di donne e bambini più qualche anziano sono chiusi dentro. Volendo potrebbero uscire ma loro, i prigionieri del primo piano, non lo fanno per non rischiare di perdere l’unica casa che hanno. Tutti gli altri, uomini e donne più giovani, dormono da sabato stesi sui cartoni nei giardinetti al centro della piazza, circondati da buste di plastica e rifiuti.

«Siamo determinati a non andare via da qui senza una soluzione, senza una casa vera dove poter vivere», spiega Bereket. Eritreo, 37 anni, ha trascorso gli ultimi 12 in Italia con un regolare permesso di soggiorno. «Guarda», dice mostrando la patente italiana come prova. «Non riesco ad avere la cittadinanza, ma non posso andar via dall’Italia. Ci costringono a restare ma dove? Non posso avere un lavoro vero, né un posto dove vivere. E adesso ci cacciano via dall’unico posto che abbiamo. Ma noi non ce ne andiamo».

Nella stessa situazione di Bereket si trova la stragrande maggioranza, se non tutti, degli occupanti. Rifugiati politici o in possesso di documenti regolari. Uomini e donne che quasi certamente sarebbero già in qualche Paese del Nord Europa se Dublino non li inchiodasse in Italia. «Ci espellessero, così ce ne andiamo», dice un uomo con un cappellino bianco in testa illudendosi di aggirare in questo modo i regolamenti europei.

Ieri mattina la tensione è salita parecchio quando la polizia si è presentata per sgomberare la piazza. Gli uomini hanno fatto quadrato fasciandosi le braccia con giacche e stoffe, pronti a parare i colpi e a difendersi. Poi, per fortuna, la situazione si è calmata e una delegazione è stata ricevuta in prefettura. La soluzione proposta al termine di una riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza prevede il trasferimento in due centri di prima accoglienza del Comune a Torre Maura e Boccea. Ci sarebbero in tutto un’ottantina di posti liberi, 30 dei quali per le donne. A questi andrebbe aggiunta un’altra sessantina di posti messi a disposizione per sei mesi dalla società che gestisce l’immobile di via Curtatone.

Dopo un sopralluogo compiuto con l’Unhcr ai centri proposti dal Comune, la delegazione torna e riferisce all’assemblea. Che boccia l’offerta per almeno tre motivi: non garantirebbe posti sufficienti per tutti, porterebbe alla divisione dei nuclei familiari e, soprattutto, si tratta di una soluzione temporanea. «Se accettiamo tra sei mesi ci ritroviamo nella stessa situazione di oggi», è il dubbio che accomuna molti degli occupanti. Senza contare che i tanti bambini che affollano lo stabile sono iscritti da anni nelle scuole del quartiere, dalle quali verrebbero tolti quando mancano tre settimane all’inizio dell’anno scolastico. «Il problema è l’assenza totale di una strategia da parte del Comune», commenta Barbara Molinario dell’Unhcr. «Non si possono spostare le persone da un posto all’altro senza considerare che molti si trovano in Italia da oltre dieci anni». «E’ paradossale – aggiunge Gianni Rufini, direttore di Amnesty international Italia – che lo Stato italiano, concedendo l’asilo politico, abbia deciso di dare protezione a molte di queste persone per poi negare loro, successivamente, ogni forma di assistenza». Una situazione – ricordano i volontari presenti nella piazza – resa più assurda dal fatto che la decisione dello sfratto sarebbe stata comunicata da mesi al Campidoglio, che però non ha provveduto a trovare sistemazioni alternative.

La più anziana tra gli occupanti è una signora eritrea nata nel 1932. Ma ci sono anche donne incinte, mamme sole con bambini, un ragazzo in dialisi. E una ragazza incinta malata di tubercolosi ossea. «Le abbiamo proposto di ricoverarsi in modo da poter ricevere l’assistenza di cui ha bisogno ma non vuole separarsi dal marito», spiegano gli operatori della sala operativa sociale del Comune che in questi giorni sono comunque riusciti ad assistere e garantire un alloggio ad almeno una ventina tra i casi più difficili.

Intanto, mentre un centinaio di persone si preparano a passare la sesta notte all’aperto, si aspetta che qualcuno trovi finalmente una soluzione. «Ho chiesto alla Regione di affidare alla Protezione civile uno degli edifici che ha disposizione in attesa che il Comune trovi delle alternative, ma non ho avuto risposte» spiega don Mussie Zerai, il sacerdote eritreo fondatore dell’agenzia Habeshia e punto di riferimento per tutti gli eritrei che decidono di fuggire dal loro Paese. «Si ricordi – commenta invece il senatore Pd Luigi Manconi – che le persone in questione non sono clandestini né irregolari né tanto meno criminali: sono tutte titolari dello status di rifugiato o della protezione internazionale. Di fronte a una simile situazione – conclude Manconi – emerge drammaticamente l’incapacità della giunta comunale di Roma di offrire soluzioni alternative».