Pubblicato pochi mesi fa, Bambini. Un manifesto politico di Matteo Meschiari (Armillaria edizioni, 100 pp.) è un libro sovversivo, non di una politica ma di una civiltà, la nostra, ancora ferma nei suoi caratteri costitutivi a diecimila anni fa, quando si cominciò a coltivare la terra. L’avvento dell’agricoltura mutò in profondità la struttura delle società umane, il ruolo degli uomini e delle donne, e anche i bambini cominciarono a lavorare.
Matteo Meschiari (Modena 1968) poeta e scrittore, insegna antropologia e geografia all’Università di Palermo. In questo suo manifesto politico si salta nel tempo, dalla cosiddetta rivoluzione neolitica a un presente e a un futuro sempre più minacciosi, con cataclismi incombenti di varia natura e ampiezza tali da mettere a rischio anche la sopravvivenza della specie umana. A fronte di tutto ciò il pensiero «neolitico» tutt’ora imperante non solo è impotente, ma è esso stesso all’origine del problema. Per uscire da questo impasse è necessaria una rivoluzione, probabilmente non solo culturale, che non può prescindere dai bambini. Da quando è nella pancia della madre fino al suo ingresso in società il «futuro cittadino» è soggetto a forme di controllo e di condizionamento tese a snaturarlo nel senso letterale del termine.
Matteo Meschiari si è reso disponibile a una specie di intervista, commentando brani del suo libro qui messi in corsivo.
Sarebbe un errore pensare che l’ansia produttiva della società capitalistica e l’ideologia competitiva che la sostiene affondino le proprie radici nella rivoluzione industriale inglese del Settecento e nelle condizioni socioeconomiche analizzate da Marx ed Engels. Il capitalismo, nonostante cambiamenti tecnologici e travestimenti culturali, ha più di 10.000 anni di storia ed è la conseguenza diretta di quella che impropriamente chiamiamo «rivoluzione» neolitica.
Il surplus non nasce nell’Ottocento ma con l’avvento dell’agricoltura, 10.000 anni fa. Semini uno e ottieni dieci, venti, trenta. Il surplus di cibo lo puoi impiegare per fare molte cose, ad esempio per pagare delle classi inoperose come i sacerdoti e i re, oppure per pagare i soldati perché proteggano i granai. La violenza umana nasce con Homo sapiens, la violenza sociale è sempre esistita, ma l’agricoltura è all’origine delle società stratificate, quelle che il marxismo ha tentato di combattere con la lotta di classe. 10.000 anni fa è nato nei campi il maschilismo patriarcale. Oggi i campi non ci sono quasi più ma il modello sociale che hanno prodotto – gerarchico, sessista, competitivo, guerriero – gode di ottima salute.
Nei boschi, quando la donna se ne andava a partorire con amiche e sorelle, seduta, attiva, la mortalità infantile era altissima, e chi vorrebbe rischiare, no? Meglio essere assimilate a una macchina rotta e salvare il bambino. Molto meglio avere tutto e subito, con un taglio, così da ricevere il pacco come un piccolo alieno venuto dallo spazio. È vero. La medicina ha migliorato le cose, l’ecatombe è scongiurata, ma l’ideologia tecnocratica si è appropriata della scena e, con l’acqua sporca, ha gettato qualcosa di irrinunciabile che sapeva di autonomia e libertà.
Il libro parla appunto di questo, di come un’idea maschilista e patriarcale della donna, della gravidanza e dello svezzamento, abbiano intrappolato la biologia dirompente della nascita in uno schema sociale di controllo. In questo progetto, la ipermedicalizzazione del parto svolge un ruolo essenziale, assimilando la donna incinta a una malata grave da gestire a 360 gradi. Oggi si sono fatti progressi enormi, il parto è un evento molto più sicuro di un tempo, nessuno vorrebbe rischiare, ma anche qui, secondo me, possiamo vedere le tracce di quella stessa ideologia che è alla base dei vari decreti sicurezza: mi invento un pericolo per gestire tutto e tutti dall’esterno, per ingerirmi nelle tue libertà fondamentali.
È considerato inaccettabile che una donna possa provare piacere sessuale durante il parto.
Accade, più spesso di quanto non si pensi, esattamente come accade durante l’allattamento. Ma non se ne parla, è un vero tabù, perché la cosa disturba moltissimo la morale comune che ama distinguere, per comodo e ipocrisia, il modello materno-virginale dalla prostituta-oggetto. La tassonomia è netta: da un lato donne sottomesse, innocenti, asessuate (tranne durante i bisogni privati erotico-riproduttivi del maschio-padrone), dall’altro donne pubbliche, peccaminose, genitali (ma sempre sottomesse e alle quali è possibile fare di tutto). Guai a mescolare i due mondi… La mamma è sacra, la femmina è puttana. Ma se invece ci fosse una madre-femmina? O una puttana sacra? Quali effetti sulla famiglia e sulla religione «tradizionali»? Molta gente ne sarebbe spaventata.
In Europa, con 17 settimane, la Francia ha il record del periodo medio più basso di allattamento fisiologico: je suis pas une vache! Questo sempre se si sceglie di farlo. Molte madri infatti optano da subito per biberon e latte artificiale emancipandosi da una ingestibile dipendenza sul posto di lavoro e scongiurando i rischi di una caduta estetica.
Voglio dire che l’allattamento è una questione ideologica oltre che biologica. Può essere letto come una trappola per la donna che vuole emanciparsi da una maternità strumentalizzata dal sistema maschile, oppure può essere letto come una forma di emancipazione dal consumismo neoliberista che vuole madri performative sul lavoro e figli svezzati precocemente per essere instradati il prima possibile in un percorso di socializzazione asettica, impersonale, obbediente. Tutto funziona caso per caso, e a seconda del contesto culturale. Diciamo che il modo in cui viene visto e praticato l’allattamento in un dato gruppo sociale è la cartina al tornasole di come quel gruppo vede e tratta le proprie donne e i propri bambini.
Medicina ufficiale e medicine alternative intervengono nel parto allo stesso modo. Non nella manipolazione fisico-psicologica, ma in quella sociale.
Che si tratti di un ginecologo laureato o di uno sciamano sudamericano, l’operatore che assiste una partoriente è sempre un mediatore sociale. È colui che accoglie il bambino nella comunità e che prepara la madre al proprio ruolo, inserendola in una precisa narrazione, narrazione che preesiste e che la guida. Il sospetto è che forse una neomadre avrebbe il diritto di costruire la propria narrazione da sé, senza pressioni sociali.
In Italia si può chiedere un congedo paternità fino a 6 mesi, con una indennità pari al 30% del salario. Non c’è da meravigliarsi se solo il 7% dei padri ne usufruisce, contro l’80% della Svezia dove si garantisce un’indennità all’80%. Dal 2018 il congedo obbligatorio in Italia è stato innalzato a 4 giorni, contro i 30 concessi dalla Svezia.
Da quando il libro è uscito le cose sono cambiate. In peggio. È il preciso riflesso di una società che vuole padri al lavoro e madri in casa. A mio modo di vedere il cosiddetto decreto Pillon è perfettamente trasparente.
I bambini portano il disordine del bosco
Sono convinto che sotto la coltre della cosiddetta civiltà si muova un’altra umanità, molto più intuitiva, corporea, viscerale. Basta guardare le perturbazioni atmosferiche delle masse politicizzate per rendersene conto. Questo aspetto, però, non è solo origine di negatività o confusione, è anche una ripresa del dialogo interrotto con le parti più selvatiche in noi. Per me i bambini non ancora addomesticati dal sistema sociale sono portatori di questo lato selvatico.
Sempre più spesso ascoltiamo la lamentela di progressisti benpensanti che criticano la Disney perché sdogana un immaginario di animali umanizzati, ma la critica non va lontano come dovrebbe perché non mostra che lo scopo di questa operazione mediatica è spacciare la sua reversibilità, cioè inoculare una percezione animalizzata dei nostri figli.
Il modello Disney del cucciolo tutto occhioni non è solo un insulto banalizzante all’animalità, che invece è carica di pulsioni molto meno addomesticate e rassicuranti, ma è la traccia di un vasto progetto sociale: assimilare i figli a pet da coccolare, accudire, controllare. Figli come cuccioli, cuccioli come figli. Un modo per immobilizzare in un colpo solo animali e bambini, entrambi portatori di un sotterraneo scandalo sociale.
Se davvero volessimo, riusciremmo a insegnare a leggere anche a un bambino di un anno (il metodo Doman). Ma la domanda è: perché?
Molto spesso ci proiettiamo nei figli e li vogliamo contenitori di tutte le nostre vite mancate, di tutte le nostre possibili rivalse di genitori mediocri e frustrati. Un piccolo Einstein e un piccolo Mozart che scimmiottano l’eccellenza adulta sono l’esito più puro del grande narcisismo neoliberista: bambini prodigio che incarnano una narrazione del progresso, del merito e del primato dei pochi sui molti.
Oggi nel mondo sono circa 150.000.000 i bambini lavoratori tra i 5 e i 14 anni. In Italia il lavoro minorile è illegale dal 1967 ma, nonostante il divieto, nella fascia d’età tra i 7 e i 15 anni si stima che i bambini italiani che lavorano siano circa 260.000.
Non saprei come commentare. Sono dati reali che mostrano che anche l’Italia di oggi, probabilmente la stessa che vuole dare il primato agli Italiani per arginare l’invasione africana, è poi pronta a trattare i propri stessi figli come piccoli schiavi.
Se un adulto può restare seduto in ufficio otto ore al giorno con una pausa intermedia di un’ora è solo perché da bambino ha imparato a restare seduto quattro ore con una ricreazione intermedia di mezz’ora.
Se io volessi ridurre un popolo all’obbedienza punterei su due cose: limiterei la sua libertà corporea e comincerei a farlo a partire dai bambini. È la biopolitica di cui parlava Foucault. Nel mio libro ho provato a mostrare che la biopolitica non riguarda solo gli adulti, comincia da piccoli, addirittura dal ventre materno.
Il mondo in cui vivono i bambini attuali è pieno di pericoli inventati...
Valutare il rischio è una delle grandi conquiste cognitive della crescita. Per riuscirci bisogna sbagliare, bisogna rischiare e farsi male. Se io cresco dentro un grosso preservativo famigliare e sociale che mi tiene lontano dal fango, dal fuoco, dai rami degli alberi, dai sassi, dai ferri arrugginiti, delegherò sempre la mia protezione agli altri. In questo modo mi sarà più semplice accettare in futuro un politico e uno stato di polizia che spaventandomi sui grandi pericoli dell’universo mi terrà al guinzaglio in casa mia.
Quello che si perde entrando in una classe, per restarci come minimo 10 anni, non è solo il rapporto con il fuori, ma una vera e propria modalità di apprendimento, un’attitudine cognitiva dove la libertà di scelta (con i suoi errori e i suoi successi) lega la conoscenza alla curiosità e all’esplorazione, non all’accettazione e alla punizione.
È un problema complesso. Oggi siamo dotati di luccicanti pedagogie all’avanguardia che mettono il bambino al centro del mondo e che professano metodi umani, intelligenti, collaborativi. Poi abbiamo maestri sottopagati, demotivati, a volte mal preparati che tentano di sopravvivere in scuole senza mezzi. Dentro scuole dimenticate dai governi, smantellate perché ultime roccaforti di cultura e di spirito critico in un paese che deride «professoroni» e «plurilaureati», non possono accadere solo belle cose. La scuola è tutto, ma se la deformi per i tuoi scopi politico-sociali diventa un mero strumento in cui non passano le idee ma solo comportamenti di conformismo e obbedienza.
Mettere un touchscreen sotto le dita di chi ha tre anni non è solo la resa di un genitore privo di tempo e di fantasia o il mesto benvenuto nella comunità dei consumatori, ma è prendere selvatichezza, animismo e immaginazione del bambino e rinchiuderli in una riserva indiana.
Già un adulto fa molta fatica a non cedere al conformismo economico, ideologico, sociale veicolato da uno smartphone. Un bambino che si trova tra le mani una finestra virtuale del genere non solo vede un mondo selettivo e orientato ma manipola una vera e propria trappola che lo spinge a sostituire ciò che è con ciò che deve essere. In questo itinerario perde molte cose, ad esempio la facoltà di immaginare per conto proprio. Sapere immaginare significa pensare mondi diversi dal proprio, e per chi quei mondi li vuole solo così come sono, immaginare è una capacità molto pericolosa.
La mente non è un computer racchiuso nel cervello, ma è legata indissolubilmente ai processi senso-motori e corporei del soggetto
Mente e corpo. Vasi comunicanti. Niente di nuovo. Quello che si trascura è che nelle strategie di controllo si può agire sul corpo per toccare la mente, e viceversa. Pensiamo ad esempio a un tornello. Il blocco e il via libera del corpo insegnano alla mente qualcosa di molto preciso, senza usare le parole: o sei dentro o sei fuori, non sei tu che decidi, o ti adegui o te ne vai… Pensiamo ad esempio a una casa in stile occidentale «regalata» a un cacciatore-raccoglitore nomade: senza bisogno di politici o di preti lo spazio domestico smantella le strutture identitarie, insegna concetti prima inimmaginabili come privacy e proprietà, frammenta il gruppo e azzera la partecipazione collettiva. Ora, proviamo a chiederci: che cosa accade ai bambini qui da noi? Siamo davvero sicuri che non subiscano un imprinting spaziale, corporeo, cognitivo? Interroghiamoci ad esempio sui loro spazi di crescita, sulle regole d’uso della corporeità, sull’ideologia latente che scivola sottotraccia nella loro carne…
L’uomo è alienato perché ha smesso di esporsi al selvatico
C’è un libro meraviglioso che nessuno oserebbe tradurre e pubblicare in Italia: The tender carnivore and the sacred game di Paul Shepard. In questo libro si illustra molto bene come l’uomo sia nato e si sia evoluto in condizioni ambientali e sociali oggi scomparse. Il suo/nostro corpo era fatto per fare cose che non fa più, la sua mente si è formata per risolvere problemi ampiamente bypassati dalla «civiltà». Eppure, come specie, eravamo fatti per stare all’aperto, per vivere in piccoli gruppi, per crescere con gli animali, per capire boschi, deserti, paesaggi. Oggi siamo bravissimi a fare di tutto, ma siamo anche come cavalli da corsa obbligati a trainare carretti. Molte forme di alienazione che consideriamo malattie individuali sono invece delle tare socio-culturali, delle vere e proprie malattie sociali, sono l’effetto sul nostro corpo e sulla nostra mente di uno stile di vita che ci sta stretto.
Il mondo non cambia. Proprio come non lo cambia il fatto di andare in bicicletta, di fare la raccolta differenziata, di mangiare bio o di scrivere libri sulla wilderness e sul genocidio culturale dei popoli dell’Artico o uscire in montagna nel weekend. Il mondo non cambia. Ma l’orso cammina. Anche nella gabbia. Il suo sangue non commuove nessuno. Dalla gabbia non uscirà mai. Ma l’orso cammina, cammina fino alla fine. Perché sa farlo. Ecco perché.
Tra populismo, fascismo e collasso climatico bisogna essere la vispa Teresa per continuare ad avere fiducia nelle sorti umane e progressive. Ma l’immagine dell’orso in gabbia che non si ferma dice anche un’altra cosa: che bisogna educarsi a resistere senza speranza. Non perché questo possa davvero cambiare il buio che ci attende, ma per far continuare a esistere un’ipotesi di umanità più riconoscente dell’esistenza dell’altro e della terra.
Chi ha fatto i disegni che compaiono nel libro?
Mio figlio John Claudio, a 5 anni. Sono la traccia del bambino che era. Oggi disegna come gli hanno insegnato a scuola. Fa disegni identici a quelli del suo compagno di banco.

 

NOTE BIOGRAFICHE

Matteo Meschiari (Modena, 28 novembre 1968) dal 2015 è professore associato all’Università di Palermo dove insegna Geografia e Antropologia della comunicazione. Come ricercatore in Beni Demoetnoantropologici ha insegnato Antropologia culturale e Antropologia del paesaggio. Ha inoltre insegnato in Francia nelle università di Lione, Avignone e Lille.
Dal 1990 svolge ricerche sul paesaggio in arte, letteratura, etnologia e geografia. Dal 2008 fa parte del workgroup Paleolithic Continuity Paradigm for the Origins of Indo-European Languages diretto da Mario Alinei.
Tra le sue pubblicazioni «Sistemi selvaggi. Antropologia del paesaggio scritto» (Palermo, Sellerio, 2008); «Dino Campana. Formazione del paesaggio» (Napoli, Liguori, 2008); «Terra sapiens. Antropologie del paesaggio» (Palermo, Sellerio, 2010); «Nati dalle colline. Percorsi di etnoecologia» (Napoli, Liguori, 2010); «Spazi Uniti d’America. Etnografia di un immaginario» (Macerata, Quodlibet, 2012); «Geofanie. La Terra postmoderna» (Roma, Aracne, 2015); «Artico Nero. La lunga notte dei popoli dei ghiacci» (Roma, Exorma, 2016); «Geoanarchia. Appunti di resistenza ecologica» (Armillaria 2017). Collabora con la rivista bioregionale Lato selvatico. In ambito letterario ha pubblicato «Poetica del terreno» (Modena, Anemone Vernalis, 1999); «Bláserk» (Firenze, Gazebo, 2003).