Che la Siae navigasse in acque difficili si sapeva. Supposti scandali come i legami di parentela fra dipendenti e non ultima l’indagine per evasione fiscale dell’ex presidente Gino Paoli, hanno sollevato un vespaio su un argomento per troppo tempo (forse volutamente) non affrontato. Ora che alcuni pezzi grossi come Fedez e Gigi D’Alessio, a seguito della direttiva Barnier, decidono di abbandonare la nave per Soundreef , aumenta la paura per la Società italiana degli autori ed editori, fondata nel 1882, che sia solo l’inizio di un ammutinamento. Un colosso che in Italia dovrebbe occuparsi dei diritti di più di ottantamila artisti e negli ultimi 6 anni ha racimolato sempre meno per conto degli stessi, aumentando i costi di iscrizione, a fronte di una poco limpida gestione (l’ultima elezione si è svolta nel 2013, la prossima è prevista per la primavera 2017) e che, troppo spesso, sembra voler tutelare i propri diritti invece che quelli degli artisti. Sprechi e inefficienza è ciò che viene contestato a una società che dai 609 milioni incassati nel 2009, è scesa a 522 nel 2014, con una prevista risalita nel 2015 a 588 (anche e soprattutto grazie al raddoppio dei compensi per la copia privata – quella che teoricamente uno può produrre da originale su un altro proprio apparecchio – che ricade direttamente sugli acquirenti).

Resta il problema dei debiti con gli aventi diritto, cioè soldi che la Siae trattiene e distribuisce in ritardo (nel 2014 erano circa 900 milioni) con la scusa delle difficoltà tecniche, ma su cui continua ad incassare interessi.

Ad aprile è uscito l’hashtag di protesta #Franceschiniripensaci (promosso da Soundreef), dopo che lo stesso ministro, il 31 marzo, alla Commissione Cultura aveva detto che in fase di globalizzazione è una fortuna avere un’unica struttura che si occupi di diritti d’autore. Una struttura – sempre secondo il ministro – «invidiata» e quindi «l’inadeguatezza e la necessità di una maggiore trasparenza, efficienza e funzionalità della Siae, non è un buon motivo per cambiare il sistema ma per riformarlo».

Insomma è abbastanza chiaro che si vorrebbe la Siae come unica monopolista legale. Ma la «Società italiana autori ed editori» non può suscitare «invidia»; è una «falsa verità». Se funzionasse come dovrebbe, un solo organo che riesce a gestire proficuamente il diritto d’autore, certo sarebbe ideale. Forse in altri stati il discorso di avere un unico gestore del diritto d’autore può essere visto come un modello positivo, ma da qui ad invidiarcelo ce ne passa. Non credo che gli autori di altre nazioni europee sarebbero soddisfatti di vedere i loro introiti parcheggiati alla Siae da almeno due anni…

Lo stesso Franceschini due anni fa parlava di abolire il monopolio e come mai ora si ritrova a traccheggiare per guadagnare tempo sulla direttiva Barnier? Pensando male si potrebbe immaginare una chiacchierata con il presidente Siae Filippo Sugar che gli fa capire come per rimodernare un mostro del genere ci vorrebbero anni, e che aprendo il monopolio arriverà qualcuno che, con costi molto più bassi, efficienza e ricavi più alti per gli artisti, li spazzerà via.

Allora viene da sospettare che il ministro abbia ragionato su cosa farne a quel punto dei mille e passa dipendenti. Un principio protezionista nell’epoca della globalizzazione per salvaguardare un organo obsoleto che ci avvicina allegramente all’ennesima procedura d’infrazione. Come nell’esempio riportato nell’altro articolo in pagina, ci vorrebbe un po’ di coraggio: o risanare con lacrime e sangue l’elefante chiamato Siae, o spostare il discorso verso le innovazioni come il Copyleft.