Il «reddito minimo di inserimento» farà un’entrata trionfale nella legge di stabilità. A sentire il ministro del Lavoro Enrico Giovannini questo assegno riservato ad una platea di oltre 3 milioni di persone, e in particolare alle famiglie con un valore Isee pari o inferiore a 12 mila euro e reddito inferiore alla soglia di povertà assoluta sarebbe «un cambiamento storico», addirittura un «cambiamento epocale». Già oggetto di una sperimentazione fallimentare dal 1998 con il governo Prodi, questo contributo è in realtà una «misura nazionale contro la miseria», così lo ha definito Cristiano Gori, membro della commissione ministeriale che ha elaborato la proposta del «Sostegno per l’Inclusione Attiva – Sia – sul Sole 24 ore del 21 settembre.

Verrà erogato dall’Inps in base al calcolo sulla differenza tra il reddito a disposizione e i margini che contrassegnano l’indigenza totale. Nella bozza in vista della presentazione della legge di stabilità si prevedono ispirate a un workfare disciplinare che dal 2014 obbligherà i Comuni – gli enti che coordineranno l’erogazione del sussidio – al controllo dei «buoni comportamenti» dei capofamiglia.

I poveri dovranno dimostrare allo Stato di essere buoni padri di famiglia che mandano i figli a scuola e si impegnano a cercare lavoro iscrivendosi alle liste di collocamento, notoriamente gli strumenti ideali per trovare un lavoro in Italia. Il «reddito minimo» non è un «reddito di cittadinanza», ha precisato a scanso di equivoci Giovannini. Invece è una misura erogata al principale attore del welfare italiano, il maschio capofamiglia, ma in povertà, che verrà sostenuto attraverso l’eliminazione delle detrazione e un «assegno per i minori» under 18 a carico. C’è anche l’ipotesi di un assegno per le famiglie con figli maggiorenni a carico. Si pensa ad un sostegno per chi ha perso il lavoro tra i 55 e i 64 anni.

Grandi restano le incognite sul finanziamento di una misura che sarà introdotta «gradualmente». Per la commissione ministeriale il Sia costerebbe 7 miliardi di euro (10 miliardi nell’ipotesi di Carlo Dell’Aringa, sottosegretario Pd al Lavoro). Ci si sta orientando su 1,5 miliardi, soldi che potrebbe arrivare da una revisione degli attuali sussidi oppure dalla spending review. Al solo pensiero di una riforma degli ammortizzatori sociali i sindacati hanno iniziato un fuoco di fila. In prima fila Bonanni della Cisl che già il 5 ottobre ha posto l’ultimatum: «Prima i soldi per la cassa in deroga, poi finita discuteremo le riforme del mercato del lavoro». Una cosa è certa: per la Cisl i soldi non possono venire dal taglio della cassa. In realtà il governo non ha (ancora) avanzato una simile ipotesi. Bonanni sembra rispondere piuttosto a Pietro Ichino (Scelta Civica) che ieri in un’intervista a «Affari italiani» ha rilanciato questa eventualità, lamentando «gli effetti rovinosi della Cassa per il modo dissennato in cui viene erogata». Ichino è contrario al «reddito di cittadinanza», ma favorevole a quello di «inserimento» condizionato alla «disponibilità» al reinserimento lavorativo. Susanna Camusso (Cgil) plaude al «reddito minimo» come «sostegno alla povertà» ma chiede di vedere le risorse sul tavolo.

Tra il paternalismo sociale del governo e il lavorismo tradizionale dei sindacati nessuno a sinistra, (tranne un post sul sito Global Project) ha riconosciuto che l’introduzione di un «reddito minimo» (o «di base») discende da una riforma universale del Welfare più arretrato d’Europa (insieme a quello greco).