In un paese in cui il 23% della popolazione ha superato i 65 anni, con un’aspettativa di vita di altri 20, il tema dell’invecchiamento dovrebbe essere centrale. Abbiamo l’età media più alta di tutto il continente, ma secondo Eurostat siamo al quintultimo posto in Europa negli indicatori che riguardano il grado di autonomia, le reti di relazione, la funzionalità e l’impegno attivo, pratico o intellettuale, dei nostri vecchi. Insomma si vive di più, ma si invecchia male.

L’esperienza di questi mesi, poi, ci dice che gli anziani, non sono stati né curati né protetti abbastanza (i decessi per coronavirus sono oltre l’80%). Ha fallito la sanità pubblica, clamorosamente assente sul territorio. Hanno fallito le Rsa, dentro le cui mura migliaia di anziani sono morti in solitudine. Nella prima e nella seconda ondata. Senza il Covid non sarebbe venuta alla luce la condizione intollerabile dei 200 mila anziani delle cosiddette residenze protette. Prima del Covid il business era in forte espansione con ingenti risorse di gruppi privati, italiani e stranieri. Il nostro paese in base agli standard europei, e tenendo conto dell’evoluzione demografica, avrebbe bisogno di 400 mila posti letto in più e gli investitori pregustavano grandi guadagni.

Dopo il Covid, una delle prime cose da cambiare è certamente il sistema delle case di riposo. Molte Rsa e strutture similari sono oggetto di inchieste della magistratura per sprechi, inefficienze, abusi e maltrattamenti. Il lavoro è sottopagato e dequalificato. Almeno in questo la situazione tra Nord e Sud non si differenzia molto. È il momento di intervenire con severità e rigore, fino alla chiusura, quando le Rsa, comunque denominate, non rispettano le convenzioni stipulate con le autonomie locali o agiscono nell’illegalità.

Il ministro della salute, Roberto Speranza, ha detto recentemente che «la casa deve diventare il primo luogo di cura». Facile a dirsi, mantenere il punto lo è meno, visti gli interessi in gioco. Dopo la pensione, la propria casa diventa l’ambiente di vita privilegiato, il rifugio, il luogo dei ricordi e degli affetti, delle abitudini. Per questo serve una scelta politica chiara che escluda, nei limiti del possibile, l’istituzionalizzazione. In fondo, finora, sono ancora relativamente pochi gli anziani che ricorrono alle case di riposo, spesso costretti da circostanze particolari.

Il problema allora è creare le condizioni favorevoli, dentro e fuori le mura domestiche, per allontanare nel tempo il ricorso ad una badante e/o il ricovero in una struttura residenziale protetta. Diventa decisivo intervenire sulle abitazioni, si deve anche ripensare la tipologia dei servizi residenziali dedicati ai soggetti in situazioni di vulnerabilità, non con l’istituzionalizzazione, ma con un adeguato supporto nel proprio alloggio e nel proprio quartiere. Servizi di mensa, pasti a domicilio, lavanderia, telesoccorso, ma anche l’aiuto per gli spostamenti, per le piccole manutenzioni in casa.

Una forma innovativa e moderna di residenzialità protetta, una nuova modalità di welfare da finanziare con lo spostamento graduale e programmato delle risorse oggi impegnate nei presidi residenziali (circa 7 miliardi di euro all’anno) verso i servizi sociali e sanitari di tipo domiciliare. È importante, in questo quadro, il ruolo di regioni ed enti locali nell’azione di coordinamento tra le varie politiche sociali (sanità, casa, trasporti, cultura, ecc.), perché le nostre città diventino accoglienti, sicure e solidali.