A Napoli, la sezione del Museo archeologico nazionale dedicata alla Magna Grecia, ha appena riaperto i battenti. Dopo venti anni di oblio, sono oltre quattrocento i reperti restituiti al pubblico dal progetto scientifico coordinato da Enzo Lippolis, compianto direttore del Dipartimento di scienze dell’antichità della Sapienza di Roma, prematuramente scomparso nel 2018. Un catalogo mirabile che, da solo, giustificherebbe un manuale di storia dell’arte greco-italica: al suo interno, a titolo di esempio, le due Tavole di Eraclea, epigrafi in bronzo capaci nel 1732 di dare abbrivio ai nascenti studi magnogreci; le terracotte e gli ori dauni degli Ipogei Lagrasta di Canosa; il Cratere di Altamura, recentemente restaurato dal Getty di Los Angeles; le lastre dipinte della Tomba delle Danzatrici di Ruvo, piccolo centro della Puglia, sistematicamente saccheggiato dai tombaroli, che il commercio dell’ambra baltica aveva messo al centro di una rete di scambi transcontinentale.

«Le sale della Magna Grecia fungeranno da modello per le future collezioni del Mann – dichiara il direttore Paolo Giulierini – Si riparte dall’allestimento del ’96, quando parte dei quattrocento reperti fu esposta a Venezia nella mostra sui Greci d’Occidente, ne abbiamo democraticamente allargato l’accessibilità, preparando guide a fumetti con la Scuola italiana di Comix e laboratori didattici per bambini».

lL VISITATORE SI IMMERGE nella sezione camminando su un tappeto di pietre originarie di Pompei, Stabia, Capri e Ercolano, dalla cui Villa dei Papiri proviene la logica puramente classica di un pavimento circolare a file di triangoli concentrici, rispettato con deferenza dal disegno architettonico di Andrea Mandara.

«La passeggiata – continua il direttore – potrebbe costituire una porta di accesso consapevole all’archeologia del Mezzogiorno, immaginando nel Mann la prima e imprescindibile tappa per procedere alla conoscenza di Paestum e di Taranto, di Reggio Calabria e della Sicilia. Mentre in Italia dobbiamo rilanciare il dialogo tra Nord e Sud, fuori dall’Europa è necessario aprire un dibattito sull’identità del Mediterraneo. Per questo, presteremo reperti non esposti in Cina e negli Usa: bisogna raccontare di popoli che si sono spostati per ragioni economiche e culturali – ciò che avvenne in Magna Grecia – e delle contaminazioni vitali innescate da tali migrazioni».

Colpisce positivamente l’impostazione razionale dell’esposizione napoletana, buona per ritrovare la bussola in tempi di derive. «Abbiamo voluto evidenziare le modalità in cui ci siamo progressivamente riappropriati del passato, nell’Italia meridionale, attraverso l’archeologia», sottolinea la curatrice Marialucia Giacco. «Da qui gli omaggi, oltre a Lippolis, a studiosi come Paolo Orsi, Alda Levi e Luigi Viola. Abbiamo inoltre mantenuto chiari e distinti i nuclei tematici che hanno plasmato la Magna Grecia, dalla religione al rito del banchetto, e seguito un ordine espositivo cronologico che va dalla prima colonia di Pitecussa alla romanizzazione».

lL PERCORSO SI DIPANA, in quattordici sale, al primo piano del lato occidentale del Mann. «I pavimenti sono in opus tessellatum bianco-nero e policromo e in opus sectile a motivo geometrico e risalgono al I secolo a. C. e al I d. C.», aggiunge l’archeologa Floriana Miele. «Furono ricomposti da Raffaele Atticciati per essere pronti, nel 1826, all’inaugurazione del Real Museo Borbonico e rappresentano quindi un monumento di storia della museografia». Sono stati appena restaurati: per camminarci su, alla ricerca della Magna Grecia, bisognerà indossare calzature sterili usa e getta.