Ginevra è fallita, seppure l’Onu tenti un’arrampicata sugli specchi camuffando lo stop chiamandolo «pausa temporanea» di tre settimane. Le accuse che ieri rimbalzavano da un fronte all’altro ne sono la dimostrazione: Francia, Usa e Turchia tacciano l’asse Mosca-Damasco di aver «silurato gli sforzi di pace» proseguendo con la controffensiva su Aleppo. «Il continuo assalto del regime siriano, sostenuto dai raid russi, contro le aree controllate dalle opposizioni – ha detto il segretario di Stato Usa Kerry – ha chiaramente mostrato l’intenzione di cercare una soluzione militare invece che politica».

La Russia ha espresso dispiacere per la sospensione, ma insistito sul proseguimento dei bombardamenti contro Isis e al-Nusra. Ma soprattutto lancia accuse al vetriolo alla Turchia: ci sono «prove ragionevoli», tra cui l’incremento di truppe e infrastrutture militari al confine – ha detto il portavoce dell’esercito russo – dell’intenzione di Ankara di compiere «azioni di terra in territorio siriano».

Se così fosse sarebbe diretto al nord della Siria, dove il nemico turco – i kurdi di Rojava – si sta allargando finendo per controllare buona parte della frontiera turco-siriana. Insomma, la guerra non tace ma si moltiplica. E con la guerra si moltiplicano i rifugiati siriani sparpagliati in Medio Oriente, in campi male attrezzati, spesso abbandonati a se stessi.

Un esempio? Ruqban, campo di profughi siriani in Giordania, al confine con la Siria, una striscia considerata terra di nessuno e lontana 120 km dal primo villaggio abitato. Ci vivono 19mila profughi. La pioggia incessante ha peggiorato condizioni già pessime, mentre l’epatite si diffonde rapidamente. In ogni tenda vivono fino a cinque famiglie, 30-40 persone, una promiscuità che spiana la strada ai contagi.

A raccontare la storia di Ruqban è il giornalista David Hearst su Middle East Eye: «Tra 70 e 100 rifugiati sono morti nelle ultime due settimane a causa della tempesta invernale – gli dice un cooperante, anonimo – Muoiono per le ferite di guerra, le malattie. Per malnutrizione, freddo, assenza di servizi sanitari». «I cani hanno una vita migliore», gli fa eco Zainab Zubaidi della White Hands Society for Social Development, organizzazione attiva nel campo profughi insieme a poche altre. C’è la Croce Rossa e piccole associazioni giordane, nulla di più. È difficile entrare, come accade per altri campi nel resto del paese: a controllarli sono i servizi segreti giordani.

Ruqban non è il solo campo in cui le condizioni di vita hanno scavalcato il limite della decenza. In Iraq, Libano, Turchia, milioni di siriani sono schiacciati da fame, freddo, assenza di diritti. È il Medio Oriente a farsi carico di chi scappa dalla Siria, 5 milioni di persone accolte con difficoltà dai vicini. Li accolgono quasi costretti, molti – come il Libano – non li vogliono perché li considerano motivo di ulteriore destabilizzazione e perché costano troppo.

Ieri re Abdallah di Giordania lo ha detto chiaramente: «Siamo vicini al punto di rottura». Il suo paese ospita 630mila rifugiati siriani (anche se stime governative parlano di 1.27 milioni), molti residenti nei campi, altri in appartamenti nelle grandi città, molto più spesso in garage o per strada. Sopravvivono con i coupon dell’Onu, 40 euro al mese che non sono abbastanza: i capi famiglia cercano lavori a giornata, con salari molto più bassi della media.

Per Stati che aprono controvoglia i confini, c’è un’Europa che li chiude. Che paga 3 miliardi di euro al governo di Ankara perché si tenga i rifugiati e che organizza conferenze internazionali per raccogliere il denaro necessario a confinarli in Medio Oriente. Ieri Londra è stata il palcoscenico dell’elemosina mondiale, la conferenza “Support Syria”. Alla fine l’Onu ha raccolto 10 miliardi, uno in più di quelli chiesti: l’Italia ha promesso 400 milioni in tre anni, la Germania 2.3 miliardi, la Gran Bretagna 3,3 entro il 2020, la Ue 3 miliardi tra 2016 e 2017 e gli Usa uno.

Andranno alle agenzie delle Nazioni Unite e ai paesi mediorientali ospitanti perché migliorino le condizioni di vita dei rifugiati. Se la vita migliora, non scapperanno in Europa. Il governo giordano, alle prese con una seria crisi economica, ha già risposto: per 1.6 miliardi potrebbe dare lavoro a 150mila siriani, attraverso la creazione di 5 zone industriali “speciali” che godano di tariffe più basse per l’export in Europa. Ci si scambia favori, si fanno affari.

Diversa la posizione del Libano (che ospita oltre un milione di rifugiati, su una popolazione di 4) che non intende aprire il mercato del lavoro ai siriani per timore di tensioni con i libanesi, alle prese con un tasso di disoccupazione vicino al 13%.

Ma la questione siriana resta politica: se non si porrà fine alla guerra, i profughi non potranno che aumentare.