Secoli di storia del pensiero in cui si è riflettuto sulla differenza, che in quanto tale implica anche un legame, tra realtà e apparenza, forma e sostanza. Uno dei problemi sostanziali della società in Rete è che essa si configura sempre più come il regno dell’apparenza. Un’apparenza che, con l’abitudine, diventa meccanicamente nota. E il noto, in quanto tale, spesso non è conosciuto. A farne le spese rischia di essere, più di altri soggetti, proprio la scuola, a cui spetta il compito di fornire una conoscenza sostanziale agli studenti. Ne discutiamo con Berta Martini, professore associato di pedagogia generale all’Università di Urbino e autrice, fra le altre cose, di Pedagogia dei saperi, per l’editore Franco Angeli.

Il passaggio dalla società industriale a quella in Rete, la globalizzazione, la nuova economia, le incredibili tecnologie a disposizione. Un mondo intero è cambiato col passaggio del millennio. E la scuola come se la passa?

La scuola è, ahimé, sempre la stessa. Non solo perché non ancora tecnologizzata al pari della società, della cultura o dell’economia, ma in quanto pressoché ignara della portata delle nuove tecnologie sulle condizioni di trasmissione e acquisizione del sapere. Per esempio, nella dialettica fra parola e immagine, codice verbale e codice visivo, la Rete riabilita l’immagine che l’introduzione della stampa aveva estromesso a vantaggio della parola. Ciò comporta una riconfigurazione dello spazio comunicativo che diviene, al tempo stesso, verbale e visivo. Non solo. Come ci insegna Francesco Antinucci, poiché nella separazione tra parola e immagine la prima ha assunto funzioni prevalentemente cognitive, mentre la seconda prevalentemente emotive, questo spazio è cognitivo ed emotivo insieme. È evidente che la scuola non può ignorare tutto questo sebbene, va detto, tenerne conto in un senso radicale richiederebbe una modificazione strutturale della sua stessa organizzazione.

Ai tempi della televisione, in certi frangenti, fu aspro il dibattito sulla funzione pedagogica o meno della stessa. Con la Rete sembra che la questione neanche si ponga. Internet è quindi una risorsa tout court per l’educazione e formazione dei ragazzi?

Rinunciare a una contrapposizione tra «apocalittici e integrati» è un bene. Ci permette di passare da un’impostazione di tipo ideologico del problema a una di tipo critico. Da intellettuali, infatti, quello che dovremmo fare è studiare il cambiamento in atto per cercare di comprendere su quali aspetti della formazione dei ragazzi incide, quali effetti produce sui saperi, quale mutamento provoca nelle forme della cultura e così via. Quella a cui stiamo assistendo è la terza grande rivoluzione tecnologica della storia dell’uomo, dopo l’introduzione dell’alfabeto e della stampa. Come quelle che l’hanno preceduta anch’essa interviene a modificare la società, la cultura e il pensiero contemporaneamente. La scuola deve essere consapevole del ruolo che la tecnologia gioca in queste direzioni e, primariamente, nella formazione delle strutture psicologiche fondamentali dei «nativi digitali». Anche ammettendo che essa produca un potenziamento del nostro cervello, il punto è valutare se stiamo utilizzando saggiamente le rinnovate capacità che essa ci apporta. I nativi digitali, ci raccomanda Marc Prensky, dovrebbero essere allievi di una scuola che possiede saggezza digitale.

Velocità, superficialità ed estrema sintesi sono le stelle comete della comunicazione in Rete. Non proprio le modalità alla base di un efficace apprendimento scolastico. Cosa ne pensa?

È indubbio che nella Rete stia emergendo una nuova forma di linguaggio. Esso è più vicino all’oralità pur essendo, paradossalmente, in forma scritta. Assume le caratteristiche di un discorso duale, dialogico. È istantaneo, inclusivo. Allo stesso tempo è permanente, archiviabile, trattabile, classificabile, analizzabile sia in senso statistico sia in senso semantico. In questa prospettiva, allora, velocità può anche significare istantaneità, la superficialità può preludere alla capacità di uno sguardo globale, l’estrema sintesi può essere indizio, anziché di una tendenza alla «riduzione», di una modalità di organizzazione cognitiva.

In una società in cui le misurazioni e i valori economici sembrano rappresentare gli unici criteri riconosciuti, la scuola come può orientarsi nella formazione di individui liberi e autonomi?

Un’alfabetizzazione culturale forte lungo i due assi storico-umanistico e tecnologico-scientifico è un requisito irrinunciabile per qualsivoglia profilo formativo. D’altra parte, non si deve fare l’errore di ritenere che sia sufficiente istruire alle rispettive discipline. Queste devono essere «fatte agire» dagli allievi. Ogni sapere ha un potenziale formativo, ma questo rimane inerte se non si creano le condizioni pedagogiche per la sua presa in carico personale da parte dell’allievo. Solo allora esso diviene mezzo per lo sviluppo di capacità di pensiero e di azione consapevoli e autonome.

Quali le prospettive e le sfide che attendono la scuola?

La sfida è sempre la medesima e riguarda la possibilità di produrre negli allievi effetti formativi stabili e duraturi. Cambiano invece le condizioni nelle quali essa si trova ad agire. Oggi queste condizioni reclamano una scuola democratica e equa, nella quale si faccia esercizio di democrazia e di giustizia. Che sappia recepire «lo spirito del tempo», ma anche porsi in maniera antagonista contro le derive di questo. Che formi sì persone competenti, ma quel che più importa, cittadini responsabili e attivi.