Quello che voleva tutto si ritrova con niente: dai pieni poteri alle mani vuote. È questo il raggio di sole che salva la giornata. Matteo Salvini che lascia (finalmente!) il Viminale – che peraltro aveva frequentato ben poco.

Ma che aveva usato moltissimo come cassa di risonanza per le proprie esibizioni truci -, è comunque uno spettacolo da giorno di festa.

Detto questo, e celebrato lo scampato pericolo, per il resto c’è poco da festeggiare, soprattutto considerando il percorso, disseminato di incertezze che rivelano vuoti mentali, assenza di visione, capricciosità, personalismi. Un percorso che certifica il basso livello di qualità del nostro ceto politico (chiamarlo «classe politica» sarebbe troppo), il grado di inconsapevolezza della gravità della situazione del Paese, lo stesso livello di logoramento e di liquefazione delle organizzazioni che guidano.

Per una sorta di «eterogenesi dei fini», come la chiamerebbe Gian Battista Vico – producendo cioè un risultato diverso da quello voluto -, con l’unico intento di salvare se stessi da morte certa (questo sarebbero state le «elezioni subito» per 5 Stelle e Pd) hanno in realtà salvato tutti noi dall’abisso di una orrenda destra trionfante. Di una maggioranza verde-nera che avrebbe potuto mettere le mani sull’intero assetto costituzionale stravolgendolo. Ma il contesto, spaventosamente fluido, quasi gassoso, in cui si trova a operare il nuovo governo – la radice del male che abbiamo sfiorato -, quello resta, e pesa, e continuerà a pesare ancora a lungo perché il Conte 2 non ne sanerà, per miracolo taumaturgico, le piaghe profonde. Potrà coprirle di pannicelli caldi, ma non guarirle.

E le piaghe sono ben visibili se si osservano i protagonisti stessi della crisi e della sua temporanea soluzione. Vorrei essere chiaro, non si tratta dei nomi dei ministri, quelli sono quello che sono, certo Di Maio agli esteri fa un po’ ridere, come d’altra parte la De Micheli ai Trasporti o Guerini alla difesa, ma non si può dire che esistessero molte migliori alternative. Di re taumaturghi in giro ce ne sono pochi. Intendo, quando parlo di protagonisti, le forze politiche, i soggetti collettivi che sono in campo, partiti o movimenti che siano. Non ce n’è uno, dico uno, che sappia chi (o che cosa) esso sia.

Che abbia una qualche idea della propria identità condivisa. Sono tutti, come dire?, in transito. Mutanti senza una meta, potremmo chiamarli. Martedì, nel comunicare i tanto sospirati risultati del voto dei «militanti» sulla piattaforma Rousseau, Di Maio ha insistito sul concetto di stabilità, garantito dal suo movimento: quelli che erano nati per cambiare tutto si candidano al ruolo di garanti della stabilità, come fossero la DC di De Gasperi. Un «mondo alla rovescia». E d’altra parte lui, «Capo Politico» del movimento, era appena stato ampiamente richiamato all’ordine dal suo «Garante» sul Blog delle Stelle, e deve guardarsi le spalle dai vari Di Battista, Paragone e dallo stesso Casaleggio. Oppure prendiamo Zingaretti, segretario di un partito di cui non controlla i gruppi parlamentari in mano al rottamatore di se stesso Renzi, tanto che appena Salvini staccò la spina al proprio governo lui si era affrettato a invocare le elezioni «subito». Il Pd: un partito identificatosi a lungo con le schiere dei winners della globalizzazione e radicato prevalentemente nelle enclaves residenziali dei grandi centri che ora scopre le periferie e le fasce deboli, di sofferenza sociale, senza tuttavia nessuno dei propri a presidiare quei territori.
Fuori dalle mura del Palazzo, la Lega di Matteo Salvini con la sua protesi nera di FdI, destinata probabilmente a perdere di potenza come l’uragano Dorian man mano che si allontana dalla sua fonte di energia e non può più contare sul «carisma d’ufficio» che derivava al «Capitano» dall’essere l’uomo forte del Ministero di polizia. E tuttavia lì pronta a capitalizzare su ogni errore dell’ex amico Conte e dei vecchi nemici Pd, consapevole che la pancia del Paese resta torbida e incattivita. Proprio per questo, al nuovo governo chiederei poche cose ma chiare. Mi accontenterei di tre: mettere in sicurezza il Paese dagli assalti alla Costituzione varando subito una riforma elettorale proporzionale pura, l’unica in grado di impedire a chiunque di «mettere le mani» sull’ordinamento democratico nato dalla Resistenza; sterilizzare il decreto sicurezza depurandolo dai suoi aspetti più inumani e palesemente illegittimi costituzionalmente. E, infine, tentare di durare con questo Parlamento fino all’inizio del 2022, quando si eleggerà il successore di Mattarella. Non sarà facile.