Il summit convocato a Parigi dal presidente Emmanuel Macron, a due anni dall’Accordo sul Clima, può apparire come l’espressione della campagna per spingere il tema dopo il sostanziale abbandono da parte degli Usa di Trump e ribadire che su questo tema la Francia vuol giocare un ruolo propulsivo. E certo in buona parte il summit è certamente un modo per tenere aperti i riflettori sulle politiche del clima coinvolgendo un certo numero di leader e il settore privato. La Cop 23 chiusa poche settimane fa a Bonn aveva un contenuto tecnico e preliminare per la revisione degli impegni di riduzione volontari delle emissioni di gas serra, che dovranno essere assunti l’anno prossimo, come previsto dal meccanismo dell’Accordo di Parigi.

Se la grande questione irrisolta rimane quella di trovare i fondi per sostenere le politiche a favore del clima – e aiutare i Paesi poveri che saranno tra i più colpiti dagli effetti del riscaldamento globale – il Summit di Parigi è stata l’occasione per un annuncio epocale da parte della Banca Mondiale: dal 2019 non finanzierà più progetti di estrazione di petrolio e gas (e gas, avete capito bene). Assieme a quest’impegno – che riguarda una cifra media di 1 miliardo di dollari l’anno – anche quello di valutare le emissioni di gas serra dei progetti per i quali si chiedono finanziamenti e di fornire l’informazione su quelle dei progetti finanziati. L’associazione Oil Change International l’ha definito come un «massiccio passo avanti nella giusta direzione». Sottolineando che quest’annuncio arriva dopo che la Norge Bank ha chiesto al governo norvegese di togliere gli asset petroliferi dal fondo pensione del governo (che è nato e cresciuto sugli asset petroliferi del Paese). Gyorgy Dallos di Greenpeace International ha detto che la decisione della Banca Mondiale «ha mandato un pesantissimo voto di sfiducia sul futuro dell’industria fossile».

Se la politica dovrà mostrare l’anno prossimo di essere all’altezza della sfida, alcune buone notizie vengono dall’industria privata e dalla finanza.

Un gruppo di organizzazioni ambientaliste – tra cui l’italiana Re:Common – ha appena lanciato un rapporto – Le banche contro l’Accordo di Parigi – centrato sugli investimenti in carbone. Ne emerge un quadro allarmante e dominato da istituzioni finanziarie cinesi. Ma che presenta anche alcuni esempi positivi come quello degli istituti francesi Bnp Paribas, Credit Agricole, Natixis e Axa, che hanno deciso di uscire anche dagli investimenti nelle sabbie bituminose.

Il gruppo olandese Ing ha annunciato in queste ore criteri molto più restrittivi sul finanziamento a progetti legati all’uso del carbone. Unicredit, va ricordato, è in questa classifica tra le banche che hanno un comportamento negativo sul clima (c’è anche Banca Intesa con un rating meno negativo), si aspetta di capire se e quando deciderà di unirsi al movimento di «disinvestimento» dalle fonti fossili.

Certo, il versante «privato» italiano, dopo l’accordo tra Eni e Fiat Chrysler sul gas naturale (sì gas naturale, avete capito bene) non è entusiasmante: non aiuterà né a tagliare le emissioni di gas serra, né in modo sensibile a ridurre l’inquinamento delle nostre città e che, nel quadro della rivoluzione tecnologica in corso su rinnovabili e auto elettriche o a idrogeno, è come guardare al futuro con la testa rivolta al passato. Per carità, certo neanche da altre parti è tutto oro quello che luccica, e nemmeno in Francia: l’Edf francese ha appena annunciato un piano di investimenti per 25 miliardi di euro sul solare, e mira a un obiettivo di 30GW quando ce ne vorrebbero almeno 100. E inizierà a investire solo dopo il 2020: una decisione che serve forse a prendere tempo sul nucleare che è in difficoltà.

Come alcuni nostri politici che pensano che non dobbiamo far nulla fino al 2020, e si sbagliano: per centrare gli obiettivi della Sen – che non sono adeguati alla sfida – dovremo correre molto di più. Qualcuno forse pensa più ad aiutare il gas naturale (sì, sempre quello) a conquistare spazio magari usando, come ha fatto il ministro Carlo Calenda, l’incidente in Austria per spingere sul Tap. Un’ossessione, quella del gas, contraddetta dagli scenari europei che invece vedono una riduzione delle importazioni. Forse a qualcuno questi scenari non piacciono?

*direttore di Greenpeace Italia