Mercoledì sera l’urgenza era quella trovare una via d’uscita dagli ultimatum di Salvini, che voleva riaprire dopo pasqua mentre il Comitato tecnico scientifico e la maggioranza del governo – Draghi in testa – la pensavano e la pensano diversamente. E infatti nel Consiglio dei ministri è passata la linea del rigore: chiusure prorogate fino al 30 aprile. Ma alla fine è stata prevista una clausola che lascia spazio a ripensamenti, una scappatoia indispensabile per non sbattere del tutto la porta in faccia alla Lega. All’articolo 1 del nuovo decreto legge è adesso previsto che «possono essere modificate le misure stabilite dal provvedimento» con una semplice «deliberazione del Consiglio dei ministri». A Salvini è stata concessa la possibilità che, in ragione dell’andamento dell’epidemia e dello sviluppo del programma vaccinale, si potranno anticipare alcune aperture. Ma ora questa clausola, e la fretta nel trovare la soluzione, provocano preoccupazione e irritazione in settori della maggioranza e nei sindaci.

Dei sindaci vedremo dopo. Dalla maggioranza invece, dal capogruppo del Pd in prima commissione alla camera e presidente del comitato per la legislazione Stefano Ceccanti, arriva un allarme. Se la clausola della delibera del Consiglio dei ministri venisse effettivamente esercitata, e non può dirsi se in senso «aperturista» come vuole Salvini o al contrario introducendo più rigore, «ci troveremmo dinanzi ad una possibile riduzione delle garanzie dei diritti assicurate dalla riserva di legge e dal passaggio parlamentare». In altre parole il governo che ha fatto capire di voler ridurre i Dpcm – i decreti del presidente del Consiglio dei ministri largamente impiegati da Conte – per andare verso una gestione delle regole anti Covid incardinata in provvedimenti legislativi di rango primario come sono i decreti legge, farebbe un doppio salto all’indietro introducendo nuove regole con una semplice delibera del Consiglio dei ministri. Atto che non rientra sotto l’ombrello del decreto legge 19/2020 con il quale un anno fa si decise di recuperare la gerarchia delle fonti a disposizione di governo e parlamento contro la pandemia.

Per le delibere del Consiglio dei ministri non è previsto neppure il blando controllo parlamentare introdotto sui Dpcm. In questi quindici mesi di pandemia le delibere sono state utilizzate poco e per provvedimenti mirati: l’introduzione e proroga dello stato di emergenza (come prevede la legge sulla protezione civile) e gli stanziamenti sul fondo per le emergenze. Niente di nemmeno lontanamente assimilabile alle decisioni che incidono sulle libertà personali.
La novità non è stata certo sottovalutata dalla Lega, dal partito ieri si faceva notare che la prossima decisione sulle aperture e chiusure arriverà così «da Draghi e non da Speranza e per noi è una vittoria». Invece secondo Ceccanti l’innovazione nella fonte «sarebbe una regressione non accettabile» e dunque si imporrebbe un tentativo di modificarla in parlamento in sede di conversione del decreto.

Secondo altre fonti parlamentari sempre di maggioranza, una qualche perplessità per la soluzione della «delibera» ci sarebbe stata anche al Quirinale, dove il decreto è però rimasto solo alcune ore ed è stato emanato già ieri sera. Sul Colle non si è trovata conferma delle perplessità. Sia o non sia stata ritenuta fondata la questione della fonte normativa delle misure che impattano sui diritti, non ha evidentemente ostacolato il via libera del presidente al decreto.
Intanto però protestano anche i sindaci. «Questa è la prima volta che noi e presidenti di provincia non siamo stati ascoltati prima di un decreto. Si è interrotta una relazione stabile e non so perché», ha detto ieri il presidente dell’Associazione nazionale comuni d’Italia e primo cittadino di Bari Antonio De Caro. Mentre il sindaco di Napoli Luigi De Magistris ha parlato di «arretramento molto grave» e di «totale assenza di consultazione e considerazione delle città prima dell’approvazione» dell’ultimo decreto Anti Covid.