Forse è esagerato prevedere un mezzo fallimento. Però non nasce sotto buoni auspici la conferenza dei Paesi donatori per la ricostruzione di Gaza, devastata dall’offensiva israeliana della scorsa estate, che si apre oggi al Cairo. L’incontro, alla presenza di una trentina di ministri degli esteri, inclusa Federica Mogherini, di una cinquantina di delegazioni internazionali e del segretario generale dell’Onu, Ban Ki moon, potrebbe rivelarsi molto deludente per il finanziamento del piano da 4 miliardi di dollari annunciato dai palestinesi. Non solo. La scena che doveva essere tutta per Gaza, uscita a pezzi da 50 giorni di attacchi israeliani – 18-20 mila case distrutte o inabitabili, 100 mila sfollati, 2.200 morti (in buona parte civili) e 11mila feriti -, rischia di essere rubata dal Segretario di stato americano John Kerry che ha annunciato di voler sfruttare la conferenza al Cairo per rilanciare il negoziato israelo-palestinese. In quale modo, alla luce del fallimento totale della sua iniziativa diplomatica? E’ probabile che Kerry punti a coinvolgere alcuni Paesi arabi nelle ipotetiche future trattative e che con ogni probabilità corrispondono agli Stati del Medio Oriente con i quali, rivelava qualche settimana fa il premier Netanyahu, Israele mantiene stretti rapporti dietro quinte sulle questioni di sicurezza.

 

Non soprendere perciò che gli Stati Uniti siano intervenuti, alla vigilia dell’incontro al Cairo, per avvertire che i palestinesi dalla generosità (pelosa) di Paesi arabi, Stati Uniti e Europa raccoglieranno 1,6 miliardi di dollari. Una cifra largamente inferiore ai 4 miliardi richiesti dal piano palestinese, peraltro solo per la prima fase della ricostruzione di Gaza. Di miliardi ce ne vorrebbero 8 in realtà. Il braccino corto dell’Occidente (e pure di qualche Stato arabo) dipenderebbe dalla “frustrazione” per la situazione di Gaza, territorio finito sotto devastanti offensive israeliane per ben tre volte in meno di sei anni. E vista la situazione – i negoziati per il prolungamento del cessate il fuoco tra Israele e Hamas non sono ancora cominciati – nessuno può escludere una ripresa dei combattimenti. Anonimi diplomatici occidentali fanno sapere che per vincere la riluttanza, soprattutto di Stati Uniti ed Europa, è necessaria una svolta politica, altrimenti non saranno assicurati altri finanziamenti. Johan Schaar, il capo della Cooperazione allo sviluppo svedese nei Territori palestinesi occupati, ha avvertito qualche giorno fa che «Nessuno può aspettarsi che si possa tornare dai nostri contribuenti, per la terza volta, a chiedere contributi per la ricostruzione (di Gaza) quando siano fermi sempre allo stesso punto».

 

Americani ed europei, è inutile farsi illusioni, non faranno pressioni vere su Israele per mettere fine al blocco di Gaza e gli egiziani, da parte loro, non ascolteranno ragioni e terranno chiuso il terminal di frontiera di Rafah. Le faranno invece sui palestinesi, oggi al Cairo e in futuro, chiedendo che Hamas sia escluso da qualsiasi aspetto della vita politica nei Territori occupati e tenuto sotto controllo dalle forze di sicurezza dell’Anp, anche se sanno che è impossibile. L’avvenuta prima riunione dal 2007 a Gaza di un governo unitario palestinese, con Fatah e Hamas assieme, è stato salutato con molto favore dai palestinesi. Israele però ripete che il presidente Abu Mazen deve rinunciare alla riconciliazione con il movimento islamico.

 

I cambiamenti per la Striscia perciò si annunciano solo cosmetici – una parziale riapertura dei valichi a scopo umanitario – e la ricostruzione rimarrà solo un progetto se, come chiede il governo Netanyahu, non verrà disarmata l’ala militare di Hamas. Al Cairo oggi sarà evitata una vera discussione sull’occupazione dei territori palestinesi e del blocco che soffoca Gaza. Paul Hirschson, un portavoce del ministero degli esteri israeliano, è stato fin troppo chiaro quando ha detto all’agenzia Irin che il recente conflitto ha rivelato che lo Stato di Israele è stato «troppo liberale» quando ha permesso l’ingresso a Gaza dei materiali da costruzione dopo la guerra precedente, nel 2012. «Incoraggiamo la comunità internazionale a investire, ma investire in modo responsabile, a capire dove stanno andando i loro dollari», ha detto Hirschson. Le stesse frasi ascoltate tante volte in passato e che peseranno su questa ennesima conferenza dei donatori, senza che sia affrontato il nodo di un territorio, Gaza, dove 1,8 milioni di palestinesi vivono prigionieri.