L’uccisione dell’orsa KJ2, epilogo del fatale incontro tra lei e un pensionato di Cadine a ridosso di Ferragosto, non ha smesso di produrre polemiche, commenti e manifestazioni da parte di alcuni movimenti animalisti.Non c’è bisogno di appartenere alla schiera di questi ultimi per provare un senso di fastidio per come si sono svolte le cose: anche obbedendo alle logiche del Pacobace (Piano d’Azione interregionale per la Conservazione dell’Orso Bruno), per cui l’animale ritenuto «pericoloso» o che si trovi in una «situazione critica» può essere catturato o abbattuto, forse si poteva agire diversamente. Il paragrafo 3.4.1 precisa che «per definire un orso ‘problematico’ è importante conoscere la storia del soggetto e tener conto dei suoi eventuali precedenti comportamenti anomali». «La storia del soggetto», invece, ha interessato poco ed è stato preferito giudicare in base a un «modo di essere» anziché a un «fatto», pietra miliare della giurisprudenza umana. Forse, se si fosse intentato un processo o un procedimento, garantendo il contraddittorio in udienza pubblica, la produzione di una consulenza di parte, magari l’assistenza di un difensore e tutte le tutele legali che il sistema giuridico garantisce, l’esito per KJ2 sarebbe stato diverso.

Tribunali bestiali

Non sembri un’eresia proporlo: tutta l’Europa conobbe, dal Duecento all’Ottocento, procedimenti penali a carico di animali, svolti soprattutto in aree marginali e montane. Certo, li si intentava contro cavalli, maiali, cani, asini o altri che avessero ferito o ucciso un uomo, ma non contro lupi e orsi. Il motivo – semplificando – lo spiega il teologo Giordano da Pisa: «perché uno leone o uno lupo uccidesse uno omo, non pecca, e non è degno di forche; però che non può fare altro, ch’è mosso a quella opera non da suo arbitrio, ma da la sua natura». Una «sua natura» molto cambiata nell’immaginario collettivo, nutrito oggi più da Masha e Orso che dall’etologia, e che ne farebbe un animale «degno» delle aule di un tribunale.Non ricostruiremo qui la storia e il significato dei processi agli animali, basti dire che non furono affatto delle astrusità: furono un’enorme messa in scena del mondo in cui le comunità tentavano di riaffermare un ordine razionale di fronte al doppio «scandalo» della morte, o del ferimento, per giunta provocata da un animale. Erano approfonditi dibattiti che riguardavano ruoli e scambio delle relazioni tra Dio, l’uomo, gli animali e il mondo vegetale. Il caos simboleggiato da un animale che avesse osato attaccare un uomo, o magari ucciderlo, doveva essere recuperato all’ordine e al cosmo agli occhi del pubblico attraverso un rituale potente e condiviso, un cerimoniale che prevedeva la magia delle formule latine insieme a quelle della procedura civile; gli incantamenti magico-religiosi degli esorcismi, insieme alle forme, più appaganti razionalmente, di leggi e codici sciorinati dagli avvocati.

La formula del processo, quindi, avrebbe anche altri vantaggi: oltre a meglio garantire i «diritti degli animali», offrirebbe quella spettacolarizzazione che tanto piace al pubblico contemporaneo e permetterebbe un’ampia rappresentazione democratica e popolare. Perché, e questo è un punto dal quale non dobbiamo prescindere, il problema non è l’odio o l’amore verso l’orso: non ci troviamo di fronte a crisi ecologiche, ma a crisi sociali, e la battaglia cui assistiamo non è tra uomo e orso ma tra uomo e uomo, e tra costoro andrebbe risolta, lasciando in pace i plantigradi.

In altre parti del mondo dove si siano svolti progetti di reintroduzione di lupi o orsi si sono verificati problemi analoghi a quelli trentini: rimostranze da parte dei cittadini – in genere per questioni di sicurezza personale e dei propri animali domestici e di allevamento – e rifiuto degli animali reintrodotti. E parliamo di zone dove peraltro le popolazioni avevano antiche frequentazioni con gli animali selvatici. Ma è anche importante sottolineare che là dove sono sorti problemi, vivevano già in precedenza comunità in crisi: spopolamento, emarginazione dalla «cultura di massa», disoccupazione e mancanza di opportunità culturali ed esistenziali facevano di quei territori una sorta di trappola per le stesse comunità.

A questo si aggiunga il loro continuo ridisegnarsi e diversamente percepirsi dovuto all’ingresso di nuovi individui: cittadini in pensione alla ricerca di mondi bucolici o più vivibili, ragazzi e ragazze stranieri che hanno trovato lavoro in aziende locali o come badanti. Tutto inserito in contesti dove le forze economiche, nuove o di ascendenza familiare, creano piccole o grandi monocolture industriali mentre quelle politiche premono verso una promozione turistica del territorio, puntando proprio sulla Wilderness, della quale l’orso sarebbe la cartina al tornasole.

Ciò che appare dietro queste problematiche è innanzitutto una continua ricerca «di comunità» che ricorda da vicino le politiche dell’identità e dei nazionalismi che hanno attraversato l’Europa del XX secolo. L’antropologo James Clifford, pochi anni fa, suggeriva di prendere sul serio queste politiche identitarie: le comunità «hanno bisogno di farsi spazio in un mondo affollato». E lo fanno anche attuando un nostalgico «ritorno» alle culture locali, campanili intorno cui stringersi per sentire una comune appartenenza. Qui gli animali diventano l’«altro» da bandire.Lo stesso definire gli animali per nazionalità – orsi sloveni, trentini, italiani – non con il loro nome scientifico, sembra condizionare l’accettazione o il rifiuto degli animali reintrodotti.

L’altro da sé da bandire
Dietro l’uso degli etnonimi sono in causa delicati e pericolosi giochi che riguardano la percezione delle distanze culturali, le gerarchie tra gli animali (la «povera» pecora, il «nobile» orso) e le loro diverse «identità nazionali». Regola che vale anche per gli uomini. Non a caso quelle stesse forze politiche che cavalcano le paure dei carnivori cavalcano anche quelle degli esseri umani: «Condividiamo i timori della Lega Nord per la presenza di orsi problematici e per l’eventuale arrivo di profughi». Sono le parole di un sindaco apparse su Il Trentino (30/10/2015). In un capovolgimento simbolico solo apparente, nell’agosto del 1893 in Francia, ad Aigues-Mortes, gli operai italiani furono massacrati a colpi di forcone al grido di En avant! À la chasse à l’ours!. Il console italiano a Marsiglia, Durando, nella sua relazione al governo credeva fosse una semplice parola d’ordine. Non aveva gli strumenti per comprendere che quel grido e quella violenza erano frutto di perversi processi di identificazione e di esclusione che accomunavano gli orsi, noti predatori di animali «domestici» e – nella mitologia – di donne, agli italiani che «rubavano» il lavoro ai francesi.

Tornando alle comunità trentine «assediate» dall’orso, le stesse scelte di reintroduzione sono vissute come frutto di una cultura «venuta da fuori» o da un «altrove» dove si prendono decisioni senza doverose negoziazioni, obbligatorie quando si decide di portare in un territorio qualunque cosa: dalle armi all’uranio impoverito agli orsi. Si ripercorrono, agli occhi dei «locali», quelle dinamiche legate alla storia della caccia nobiliare, quando terre e risorse venivano alienate in favore di gruppi di potere sempre più ristretti. Non è un caso che molte oasi di protezione siano nate come riserve di caccia nobiliare, almeno in Italia.

L’assedio simbolico
Ma l’orsa in Trentino può essere anche bandiera di gruppi di potere legati al turismo e a floride aziende agricole: la sua sola presenza nelle foreste locali «certificherebbe» un ambiente di «alta qualità». Questo è – in parte – il sostrato in cui si è svolto lo sfortunato incontro tra l’uomo di Cadine e JK2, incastrata in una rete fatta di interessi politici per lo sfruttamento idrico, energetico, turistico ed economico e ataviche paure che riguardano l’ordine pubblico ma anche la psicologia; tra realtà in continuo cambiamento e nostalgia di un passato rassicurantemente sempre uguale a se stesso. Altri incontri tra uomini e orsi non si potranno evitare, ma se ne potrebbero diminuire le conseguenze, soprattutto informando i cittadini della presenza di animali in una data zona, e dei comportamenti da tenere. E se dovesse accadere nuovamente un’aggressione, forse il ricercarne le colpe e le cause attraverso un processo pubblico potrebbe essere una valida soluzione e un modo concreto per ridisegnare e rafforzare una comunità. Perché, come scriveva l’antropologa Mary Douglas, «sia la colpa che il sistema giudiziario sono sintomi del modo in cui la società è organizzata».