L’ultima vicenda che riguarda il «Trump asiatico», il presidente filippino Rodrigo Duterte, assomiglia molto alle polemiche che riguardano il suo omologo americano. Nonostante infatti tutti i presidenti dell’era post Marcos (il dittatore morto nel 1989 negli Usa) abbiano sempre pubblicato le proprie dichiarazioni dei redditi, Duterte non lo fa.

Ha invece detto che la decisione se pubblicarla o meno dipende da una decisione dell’Ufficio dell’Ombudsman, il difensore civico responsabile delle indagini sui funzionari di Stato. È una delle violazioni «minori» di un uomo che, anche grazie al Covid, è riuscito a farsi dare dal parlamento sempre maggiori poteri grazie ai quali controlla la stampa, i movimenti sociali e le forze di sicurezza divenute famose grazie alla sua battaglia per ripulire il Paese dal narcotraffico: una battaglia pagata, spessissimo con la vita, soprattutto da piccoli spacciatori o consumatori.

La resistenza dentro il Paese per altro non si ferma e ha trovato un valido alleato anche nella Chiesa cattolica locale, schierata con le vittime della repressione e della crisi economica inasprita dal Covid in un Paese dove i casi conclamati sono quasi 400mila e i morti oltre 6.600.

Il 17 settembre il Parlamento europeo ha però «condannato fermamente» le violazioni dei diritti umani perpetrate dall’amministrazione Duterte e ha invitato gli Stati membri a sostenere la risoluzione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni unite – che si basa su un dossier pubblicato a maggio dallo stesso Unhrc – per un’indagine internazionale indipendente sulle violazioni commesse dal 2016. La risoluzione del Parlamento è stata adottata da 626 deputati a favore, 7 contrari e 52 astensioni ed esprime «profonda preoccupazione» per il rapido deterioramento della situazione dei diritti umani sotto la presidenza Duterte, specie per le esecuzioni extragiudiziali legate alla cosiddetta guerra alla droga (oltre 8mila). La Ue chiede in sostanza al capo dello Stato di porre fine alle uccisioni e di sciogliere i gruppi paramilitari privati.

In ballo c’è anche una possibile procedura per ritirare la clausola di nazione favorita (il regime GSP+ che garantisce zero dazi alle esportazioni delle Filippine verso la Ue) «in assenza di miglioramenti sostanziali» nella situazione dei diritti umani del Paese. La risoluzione è stata respinta al mittente dall’esecutivo filippino e durante un’audizione alla Camera, il Segretario agli Affari Esteri Teodoro Locsin Jr. ha criticato il Parlamento europeo per aver affrontato «questioni prive di senso» come la chiusura del gigante dei media ABS-CBN, catena televisiva critica col presidente. Secondo il portavoce di Duterte, Harry Roque, la risoluzione si baserebbe su «disinformazioni» alimentate dal Partito Comunista delle Filippine (i cui capi sono in esilio in Europa come rifugiati politici).

Proprio in questo mese, anche la diaspora filippina si è mossa per appoggiare la risoluzione e soprattutto perché dalle parole si passasse ai fatti. Ma la decisione finale delle Nazioni unite del 7 ottobre scorso per ora non lascia che uno spiraglio aperto. Diversi coordinamenti internazionali (presenti anche in Italia), dal The Europe Network for Justice and Peace in the Philippinese all’International Coalition for Human Rights in the Philippines, hanno ricevuto una doccia fredda dalla risoluzione del 7 in cui l’Unhrc si limitava a proporre una «cooperazione tecnica» dell’Onu a un’indagine del ministero della giustizia filippina. Stessa musica dal rappresentante residente del Palazzo di Vetro a Manila. Un’indagine che il ministero filippino non ha alcuna intenzione di fare.