Alle 16.23 l’aula di palazzo Madama sentenzia: 154 sì (110 no e 12 astenuti) all’arresto di Antonio Stefano Caridi, senatore di Grandi autonomie e libertà accusato di appartenere ad una cupola segreta della ’ndrangheta. Un quarto d’ora più tardi l’avvocato Valerio Spigarelli annuncia che il parlamentare (classe 1969, assessore a Reggio Calabria con l’Udc, consigliere e assessore regionale con il Pdl e fino al 18 dicembre 2014 nel Ncd di Alfano) si sta già costituendo nel carcere di Rebibbia.
Cala così il sipario sull’ultima seduta del Senato: tutti in ferie, tranne uno che si presenta all’ufficio matricola. Per il presidente Pietro Grasso una giornata ostica, di nuovo alle prese con procedure e regolamenti che innescano polemiche e scintille.
Si era cominciato con l’inversione dell’ordine del giorno dei lavori: il “caso Caridi” (con il voluminoso dossier della Giunta per le immunità) anticipa la riforma dell’editoria, che così slitta al 13 settembre a causa della doppia mancanza del numero legale.

È subito bagarre con il M5S che cerca di documentare in video. Grasso è netto: «La seduta è pubblica, trasmessa in streaming e tutti la possono vedere. Appena colgo un’altra persona che fa riprese, non c’è neanche bisogno che intervenga: si può accomodare direttamente fuori e viene espulso». Poi inizia il braccio di ferro sul voto: segreto o palese? I senatori Gal invocano il primo, il capogruppo Pd Luigi Zanda replica: «Sarebbe serio che l’aula si esprimesse in modo palese». Infine, ancora scintille sulla mole di documenti, sul fumus persecutionis, sul garantismo e sull’arresto politico.
Il diretto interessato si auto-difende così: «Mi si accusa di aver fatto parte di una sorta di componente apicale e segreta della ’ndrangheta, pur senza indicare un fatto, uno, che dimostrerebbe questa infamante accusa. In quasi venti anni di indagini i fatti dimostrativi del ruolo che mi viene addebitato, così fondamentale, sarebbero infatti l’assunzione di sei persone in una società controllata dal Comune, ovvero la circostanza, narrata ma non dimostrata in alcun modo, secondo la quale avrei assicurato le cure di un medico ad un latitante». Caridi connesso alla cosca De Stefano Tegano? «Per il tramite di una persona, Chirico, con cui i rapporti sono interrotti da oltre 12 anni». Voto di scambio con la cosca Pelle? «Un incontro che sarebbe durato, secondo gli inquirenti, 180 secondi. Ma si cancellano gli esiti di processi: hanno verificato che a San Luca, il paese di quella famiglia, ho preso meno voti di tutti gli altri candidati».

Si va verso il verdetto. Con il forzista Lucio Malan che si spinge nella consequenzialità logica applicata alla concertazione politico-matematica: «Nelle carte c’è scritto che il collega Caridi agisce in Senato sulla base delle indicazioni dell’organizzazione di cui farebbe parte. Ricordo che il 14 ottobre 2014 il voto del senatore Caridi fu determinante per il futuro del governo Renzi. Si è espresso a favore un provvedimento importantissimo, indispensabile all’azione del governo. Passò con 161 voti, quando il minimo era 16:1 consentiva al governo di scostarsi dai vincoli di bilancio previsti dalla Costituzione e dai vincoli europei. In mancanza di approvazione, sarebbe stata necessaria una manovra fra i 14 e i 35 miliardi di euro. Tutti concordavano che se quel documento non fosse passato il governo Renzi avrebbe dovuto dimettersi».

Contro l’arresto ha votato anche Luigi Manconi, senatore Pd da sempre attento all’universo carcerario: «Non ho dichiarato anticipatamente la mia scelta per rispetto nei confronti del mio gruppo parlamentare, che ha preso una decisione assai complessa e travagliata» spiega Manconi, «La mia è stata diversa, assunta in piena coscienza e in totale libertà: è dovuta a quelle che ritengo palesi carenze e gravi debolezze delle motivazioni addotte a sostegno della richiesta di arresto».
E Manconi non perde occasione per evidenziare in particolare il comportamento di un esponente del M5S durante il dibattito: «Dunque, ho votato “no” all’arresto di Caridi ulteriormente incentivato dall’intervento senatore Mario Michele Giarrusso, capace di rendere garantista persino un boia di professione. E ho votato “no”, nonostante il fatto di trovarmi in compagnia di tanti simil-garantisti, contrari a “mandare in galera qualcuno” (specie se parlamentare), ma silenziosi quando in cella ci stava Fabrizio Pellegrini, malato di fibromialgia e tanti altri anonimi poveri cristi italiani e stranieri».