Votano contro solo in 11 – gli ex 5 Stelle passati all’opposizione con Draghi – perché anche Fratelli d’Italia si ferma all’astensione. La camera dei deputati approva così con 412 sì e nessun no la risoluzione che accoglie il Piano nazionale di riforma e resilienza presentato da… Conte. Perché il Pnrr è ancora quello, più esattamente è la seconda versione che l’ex presidente del Consiglio presentò nel tentativo – vano – di arginare la crisi dei giallo-rossi. L’unico documento pienamente originale del nuovo esecutivo sul piano di impiego del famosi miliardi di Next generation Eu (nel frattempo scesi per l’Italia a 191) sono le «schede tecniche progettuali» depositate in parlamento dal ministro dell’economia Franco ai primi di marzo. Schede che prevedono l’impatto sul Prodotto interno lordo degli investimenti e delle riforme, il lavoro per il quale sono stati ingaggiati i consulenti d McKinsey. Il nodo che resta ancora da sciogliere, dunque, è come Draghi nello scrivere il nuovo piano eserciterà quella «discontinuità» rispetto al Conte 2 che è in fondo la ragion d’essere del governo. E in che modo coinvolgerà il parlamento. In meno di un mese.

Le commissioni permanenti della camera e del senato (dove un’analoga risoluzione di approvazione e indirizzo sarà votata oggi) hanno lavorato tutte sulla base del piano presentato dall’ex ministro dell’economia Gualtieri il 15 gennaio scorso. Avevano in precedenza, a ottobre 2020, presentato delle osservazioni alle prime linee guida abbozzate dal governo Conte. Poi il caso della governance del piano, che come si ricorderà Conte in prima battuta intendeva affidare una task force, spalancò il precipizio. Come si vedrà più avanti, il problema della catena di comando nell’esecuzione del piano resta apertissimo. Ma intanto il governo ha promesso al parlamento che utilizzerà il lavoro svolto per questi due mesi su un testo vecchio come indicazione per la redazione di quello nuovo. E le osservazioni non mancano, come ha spiegato ieri in aula il presidente della commissione bilancio Fabio Melilli (Pd) che ha presentato la relazione finale. Dopo una lunga attività istruttoria e diverse audizioni, la camera consegna al governo una lista di raccomandazioni, a partire dall’esigenza di concentrare le risorse sui programmi «più innovativi e di maggiore impatto» sull’occupazione. Aggiunge l’esigenza che siano indicati obiettivi qualitativi e quantitativi per ciascuna «missione» (che restano 6: digitalizzazione, ambiente, mobilità, istruzione, inclusione e salute). Obiettivi anche intermedi, visto che il limite per la realizzazione del piano è stabilita nel 2026 e la continuità nei trasferimenti dipende dalla concretizzazione dei progetti. Nel piano sono state aggiunte tre «priorità trasversali», che sono giovani, parità di genere e mezzogiorno, ma anche per queste non ci sono obiettivi. E c’è il rischio che l’utilizzo nel Pnrr dei fondi già previsti per lo sviluppo e coesione finisca per sostituire vecchie risorse con le nuove, proprio ai danni del sud. Che garanzia ha il parlamento, adesso, che il governo ascolti queste raccomandazioni?

Sfumata per ragioni di tempo la presentazione del nuovo piano assieme al Def (il Documento di economia e finanza va dato alle camere entro il 10 aprile), la previsione è che il parlamento riceva il Pnrr una manciata di giorni prima che l’Italia debba trasferirlo ufficialmente all’Unione, data fissata per il 30 aprile. Sarà allora impossibile garantire quell’esame attento che le commissioni riservano al Def (che ha la stessa scadenza di fine aprile). La risoluzione di maggioranza approvata ieri – precedentemente negoziata con il ministro dei rapporti con il parlamento D’Incà – prevede che il governo farà «comunicazioni» sul piano, termine non casuale: significa che ci sarà un voto d’aula.

Quanto alla governance, il ministro dell’economia Franco ha anticipato alla camera che «la proposta finale conterrà un modello organizzativo basato su una struttura di coordinamento centrale (a guidare la quale ha già scelto il dirigente della Ragioneria Carmine Di Nuzzo, ndr) collegata a specifici presidi settoriali presso tutte le amministrazioni coinvolte, unitamente a strumenti e strutture di valutazione, sorveglianza e attuazione degli interventi». Il problema, come fa notare Melilli, è che una volta distribuite sul territorio le responsabilità, bisognerà essere in grado non solo di controllare il rispetto dei risultati attesi, ma anche di potersi sostituire agli inadempienti.

Infine c’è l’incognita sugli strumenti legislativi che attueranno il piano. La formula del «pieno coinvolgimento» del parlamento nelle fasi successive», inserita nella risoluzione, allude al timore che il governo intenda procedere solo con decreti legge. Mentre la risoluzione, adottando il parere della commissione affari costituzionali, indica una preferenza per leggi delega organiche. Cosa che almeno per le riforme di struttura appare inevitabile.