Hanno lavorato per giorni per inventarsi un dissenso soft, che non facesse troppo male al Pd che resta – nella quasi totalità dei casi – il loro partito. E invece alla fine hanno scatenato un gran cancan. Ieri alla camera al momento del voto del jobs act la minoranza Pd coté non-allineati e irriducibili a Renzi non partecipa al voto. Ma le altre opposizioni li avevano preceduti fuori dall’aula. L’idea è partita da Forza Italia, il tentativo era solo dimostrativo, far mancare il numero legale. Non succede, ma alla fine la legge delega passa con soli 316 sì. Per il risultato bastano e avanzano, ma l’effetto è lo stesso pesante. In sei votano no, due di loro sono Pippo Civati e Luca Pastorino. In 5 si astengono, due sono i civatiani Gandolfi e Guerini. Il jobs act doveva essere un pranzo di gala per Renzi. I renziani erano pronti a sfottere la «minoranza della minoranza». E invece il dissenso almeno si vede.

In realtà era iniziata maluccio. In mattinata negli uffici di Sel il gruppo di punta della minoranza Pd incontra una rappresentanza della Fiom lombarda, che aveva chiesto un confronto con Guglielmo Epifani, ma l’ex segretario Cgil – sostengono – non ha neanche risposto. Dirige l’orchestra il combattivo Giorgio Airaudo, ex numero due di Landini. Ma in questo momento il drappello dem non ha ancora deciso se votare no o uscire dall’aula. Tranne Pippo Civati, che da giorni predica che vuole metterci la faccia. Ma da lui tutti aspettano ormai solo l’annuncio dell’abbandono del Pd. Intanto Bersani ammette a Radio Radicale che pronuncerà un sì sofferente: «Per la parte che non condivido voto per disciplina, perché sono stato segretario di questo partito e se c’è qualche legno storto da raddrizzare penso che lo si possa fare solo nel Pd». Il presidente Matteo Orfini tenta un ultimo appello alla compattezza: «Abbiamo raggiunto una larghissima unità sul testo, spero che per rispetto della discussione fatta, dei cambiamenti apportati, del lavoro di ascolto reciproco e della nostra comunità, si voglia fare tutti un ultimo sforzo in aula».

La minoranza litiga e ondeggia, ma alla fine la decisione arriva in una nervosa riunione all’ora di pranzo. La trentina (al conto risulteranno 29) riesce a non spaccarsi. Sempre al netto di Civati, che invece non sente ragioni. Intanto in aula il jobs act va avanti veloce e il voto arriva in anticipo rispetto ai programmi. C’è un motivo: la procedura speciale ha diminuito drasticamente gli emendamenti (per questa ragione e non per generosità il governo non ha posto la fiducia), nel primo pomeriggio cadono quasi tutti gli ordini del giorno. Al momento del voto il Pd schiera Andrea Martella e non il capogruppo Roberto Speranza, protagonista della mediazione che ha portato una parte dei bersaniani a votare sì. Stefano Fassina dichiara a nome della «trentina» di non poter votare il testo: «Il propagandato contratto unico non c’è e neanche il disboscamento della giungla dei contratti precari». Male anche sugli ammortizzatori sociali, male sull’art.18. «Viene prospettata la possibilità di reintegro in caso di fattispecie di licenziamento disciplinare, ma è un canale virtuale, perché, le imprese non utilizzeranno questo canale». C’è del veleno in coda: «le parole del presidente del consiglio certamente non aiutano a una valutazione migliorativa».

Airaudo, dai banchi di Sel, si rivolge alla minoranza Pd che vota sì: «Io non posso non chiedere a te Guglielmo Epifani, mio segretario della Cgil, cosa è cambiato dal 23 marzo 2002 quando tu eri sul palco insieme a Cofferati?». Ma Epifani non è in aula. Poi verso Cesare Damiano, che ha trattato con il governo in commissione lavoro «non posso non ricordare che se lui ha potuto fare il ministro e siede in questo parlamento è perché alcune centinaia di migliaia di operai, metalmeccanici, comunisti spesso, hanno lottato per quei diritti. Lui, come me, non sarebbe mai arrivato in questa camera se non ci fossero stati quei lavoratori che quell’art. 18 l’hanno conquistato scioperando e battendosi».

Consumato il voto, i 5 stelle si presentano ai cronisti bendati, con una striscia di stoffa con su scritto «LicenziAct». La trentina del Pd invece tiene le distanze. Ma si fa vedere: sono Roberta Agostini, Tea Albini, Ileana Argentin, Rosy Bindi, l’ex ministro Massimo Bray, Francesco Boccia, Marco Carra, Angelo Capodicasa, Susanna Cenni, Eleonora Cimbro, Gianni Cuperlo, Alfredo D’Attorre, Gianni Farina, Stefano Fassina, Paolo Fontanelli, Filippo Fossati, Carlo Galli, Monica Gregori, Maria Iacono, Francesco Laforgia, Gianna Malisani, Margherita Miotto, Michela Marzano, Michele Mognato, Barbara Pollastrini, Maria Grazia Rocchi, Alessandra Terrosi, Giuseppe Zappulla e Davide Zoggia. Più che una nuova area, è l’intergruppo dei non allineati (a Renzi). Apprezzano, giurano, «i miglioramenti» ottenuti dai colleghi riformisti, chiedono però che il segretario non proceda in solitaria. Fassina è durissimo: delegittimare chi rappresenta i lavoratori «non giova alla pace sociale ma alimenta tensioni sovversive e corporative».

Renzi twitta di felicità, ma la festa è rovinata. Ora il «chiarimento» arriverà alla direzione di lunedì, insieme anche alla discussione sulle regionali. Non ci sono provvedimenti disciplinari all’orizzonte, scherza Cuperlo: «Confidiamo nelle nuove regole sui licenziamenti disciplinari e ci aspettiamo delle tutele aggiuntive». Per il jobs act l’ultima parola tocca al senato, dove oggi – coincidenza – si discutono le dimissioni di Walter Tocci, consegnate proprio dopo aver votato il jobs act. La legge delega deve ripassare da lì per il sì finale. «Il testo è migliorato, Damiano ha fatto un ottimo lavoro», giura il riformista Miguel Gotor. Ma Corradino Mineo già annuncia il suo no. La maggioranza lì sta in piedi per sette voti.